Una celebrazione molto sentita e partecipata, sebbene sottoposta ancora una volta alle restrizioni anti-Covid e, quindi, con ingressi regolamentati. Oggi, 11 luglio, la comunità monastica di Montecassino ha accolto fedeli e autorità, ma anche i tradizionali pellegrini che a piedi fanno la “Salita al Monte” in segno di devozione verso San Benedetto, Patrono Primario d’Europa e di Cassino.
I pellegrini che attraverso gli antichi sentieri che dalla città portano fin su all’Abbazia sono stati accolti, all’arrivo, davanti al portone Pax, da Dom Luigi Maria Di Bussolo che ha impartiato loro la benedizione. Alle ore 10.30, nella Basilica Cattedrale S.E.Dom Donato Ogliari, Arcibate e Ordinario di Montecassino ha presieduto il Solenne Pontificale alla presenza degli Oblati dell’Abbazia, di alcuni rappresentanti del Consiglio Comunale della Città di Cassino, delle Forze dell’Ordine e di tutti i fedeli, i pellegrini e le persone sempre vicine alla Comunità Monastica.
La Celebrazione è stata animata dal Coro San Giovanni Battista Città di Cassino -in formazione ridotta- diretto dal Maestro Fulvio Venditti.
E sono risuonate, fortissime, nella Basilica, le parole del Padre Abate, suggestive e ricche di signficati. Ogliari, che ha fatto riferimento alla nostra vita quotidiana, alla coerenza spesso cercata e non raggiunta, alle distanze tra verità e falsità. «(…)Il messaggio del Libro dei Proverbi ci raggiunge come una ventata di saggezza che ci induce a chiederci se ci sforziamo di vivere interiormente ed esteriormente unificati. Potremmo chiederci, ad esempio, se non siamo diventati anche noi succubi della tecnologia digitale, ormai così pervasiva della nostra quotidianità, a tal punto da oscurare l’importanza delle relazioni dirette, sincere, empatiche, solidali, a favore di un approccio virtuale che, in molti casi, è anche deresponsabilizzante.
Oppure, pensiamo ad un altro esempio di scissione o scollamento al quale oggi spesso assistiamo, quello tra il desiderio di verità e la sua contraffazione. Sono passati cinque anni da quando – nel 2016 – il termine “post-verità” venne indicato come “parola dell’anno”. Da allora questa espressione – post-verità – è entrata a pieno titolo nel nostro linguaggio, a significare le tante situazioni in cui la realtà viene sganciata dal suo dato obbiettivo e viene deliberatamente distorta, facendo leva sulle proprie emozioni e sui propri pregiudizi o sul mero gradimento soggettivo (mi piace, non mi piace). Da qui le fake news da cui siamo inondati, i discorsi improntati all’odio, alla divisione, alla contrapposizione gratuita, scelta come arma preventiva di scontro ad ogni costo, al di fuori di ogni logica razionale, dialogica ed etica.
Ecco allora – per ritornare alla pagina biblica dei Proverbi – l’importanza di improntare il nostro dire e il nostro fare alla coerenza tra il nostro pensare, il nostro parlare e il nostro dire. L’autore del Libro dei Proverbi ci viene in aiuto insistendo – tra le altre – sulla virtù della prudenza, che in questo breve brano è nominata ben tre volte.
La prudenza è quella virtù che, fondandosi sulla rettitudine interiore, dispone la ragione «a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo» (CCC, n. 1813). E proprio perché è la virtù della prudenza a guidare la nostra coscienza e a regolare il nostro agire secondo rettitudine, essa è stata definita «auriga virtutum – cocchiere delle virtù», in quanto è lei, in ultima analisi, a dirigerle «indicando loro regola e misura» (Ibid.). Senza la prudenza, insomma, sarebbe davvero difficile vivere con rettitudine, giustizia ed equità».
Fortissimo, poi, l’invito a tutti coloro che rivestono ruoli pubblici ed autorevoli, a guardarsi dal rischio di servirsi degli altri, ma di essere utili al prossimo, di coltivare la solidarietà.
«(…) san Benedetto, nella sua Regola, esorta i suoi monaci a servirsi reciprocamente nella carità (cf. RB 35 passim), ossia attraverso il dono di sé dettato dall’amore sincero, limpido e gioioso perché gratuito. Solo in questo modo ci è possibile “servire gli altri” senza cadere nella tentazione di “servirci degli altri”.
Nel difficile tornante nel quale ci troviamo a vivere, e che è stato reso più critico dall’ondata pandemica che ha investito il mondo intero, come cristiani siamo chiamati a riscoprire la logica del servizio, un servizio che passa attraverso la solidarietà fraterna. Questa è l’unica via che può guarirci da un malsano individualismo e aprirci a riconoscere – oltre alle nostre – le fragilità e i bisogni, materiali, morali e spirituali, di chi ci sta intorno, da quelli che ci sono più prossimi fino a quelli che giungono sulle coste della nostra Europa in cerca di una vita che sia degna di questo nome.
Come ci ha ricordato papa Francesco nella sua ultima enciclica, Fratelli tutti, «servire significa avere cura di coloro che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società, nel nostro popolo”. In questo impegno ognuno è capace di “mettere da parte le sue esigenze, aspettative, i suoi desideri di onnipotenza davanti allo sguardo concreto dei più fragili. […] Il servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in alcuni casi a “soffrirla”, e cerca la promozione del fratello. Per tale ragione il servizio non è mai ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone”» (FT, n. 115).
Se questo richiamo fortissimo è destinato in primo luogo a chi riveste un ruolo di autorità ed esercita, in un modo o nell’altro, un’azione di governo a livello locale, nazionale o internazionale, esso è nello stesso tempo diretto ad ogni cristiano che intenda vivere seriamente e generosamente il Vangelo di Gesù.
Ci sostenga l’intercessione di san Benedetto, maestro di umanità e testimone autentico del Vangelo. A lui affidiamo i nostri passi e la costruzione di un’Europa sempre più pacifica, giusta e solidale. E così sia».
Foto di Roberto Mastronardi