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Nella discussione sui licenziamenti che ha coinvolto un po’ tutti, dalla politica alle parti sociali, la data del primo luglio è stata elevata a spartiacque definitivo tra il lavoro durante la pandemia, congelato dal blocco, e quello post-emergenza, dove ai titolari delle grandi imprese è ridata la facoltà di licenziare. I sindacati hanno ipotizzato una sorta di click day, gli imprenditori hanno smentito questo scenario parlando di assunzioni. Ora il primo giorno dei licenziamenti liberi dopo un anno e quattro mesi è arrivato. E non è stato un liberi tutti. Qualcuno, come la Abb, ha deciso di chiudere a Marostica, in provincia di Vicenza, e ha mandato a casa cento lavoratori, ma la stragrande maggioranza ha scelto la via alternativa della cassa integrazione. Fin qui il tutto si delinea come una sconfessione della visione apocalittica dei sindacati. Ma ci sono anche molte imprese che non hanno richiesto i nuovi ammortizzatori: non si sono mosse e hanno quindi lasciato aperta la finestra dei licenziamenti per i prossimi giorni.
L’immagine che restituisce il primo giorno è una sconfessione del primo luglio come redde rationem. Vale per la visione dei sindacati, ma anche per quella degli stessi imprenditori. Quello che si è imposto è il dato di realtà e cioè un mondo del lavoro frammentato, veicolo di crisi che sono scoppiate anche prima della pandemia (Whirlpool è il caso più evidente), ancora in attesa di capire se e quanti lavoratori sostenuti dallo Stato con la cassa integrazione possono ora fare parte di un processo che proverà a uscire dalla logica del sostegno per ritornare a quella del mercato. A livello generale la ripresa c’è, il ministro dell’Economia Daniele Franco ha ipotizzato che il Pil potrà crescere fino al 5%, di più rispetto alle previsioni, ma il lavoro è strutturalmente il settore che si riprende per ultimo, a maggior ragione se è infettato da problemi – dai salari alle nuove mansioni – che sono parte integrante del problema quantitativo, cioè del dentro o fuori.
Così come c’è stato il balletto sulle stime dei licenziamenti (i sindacati hanno parlato di 500mila uscite, l’Ufficio parlamentare di bilancio di 70mila, Confindustria ha sempre ridimensionato il tutto non impiccandosi ai numeri), così ora si assiste a uno scenario ancora in divenire sul fronte dei comportamenti degli imprenditori. Saranno le prossime settimane a dire dove penderà la bilancia, ma questa fluidità, fotografata oggi, ha comunque delle tendenze.
I 1.400 lavoratori di Air Italy salvi fino a dicembre
Negli scorsi giorni erano stati annunciati come “le prime vittime” dello sblocco. Ma i 1.383 dipendenti di Air Italy, dislocati tra Malpensa e Olbia, non perderanno il posto di lavoro almeno fino a dicembre. E questo perché i liquidatori dell’azienda hanno scelto di usufruire della ciambella di salvataggio messa a disposizione del Governo con il decreto sul lavoro approvato mercoledì dal Consiglio dei ministri. Sei mesi di cassa integrazione in più, fino al 31 dicembre, come tutela. Lo schema messo a punto dall’esecutivo non prevede il divieto di licenziamento, ma solitamente chi usa la cassa integrazione non licenzia. E il fatto che non si sia dato seguito alla procedura di licenziamento è l’altra prova che blinda i posti di lavoro fino a fine anno.
Il Governo tratta con Whirlpool per evitare 350 licenziamenti
Appena una settimana fa Whirlpool aveva comunicato che il primo luglio, in assenza di una proroga del blocco, sarebbero scattati i licenziamenti per i 365 lavoratori dello stabilimento di Napoli. Ma a giovedì sera non ha ancora comunicato se intende andare avanti su questa strada. I giochi si sono riaperti e il Governo, attraverso la sottosegretaria al Mise Alessandra Todde, sta cercando di portare l’azienda sulla strada della richiesta di 13 nuove settimane di cassa integrazione. In questo modo, infatti, i licenziamenti verrebbero scongiurati e quantomeno rimandati di tre mesi. È dal 2018 che la crisi di Whirlpool tiene banco, il 31 ottobre dell’anno scorso è stato l’ultimo giorno di lavoro nel capoluogo campano, poi il giorno dopo i cancelli si sono chiusi e non si sono più riaperti. Non si producono più lavatrici. Ma i lavoratori, in cassa integrazione, rischiano appunto il licenziamento. Saranno le prossime ore a stabilire se il pressing del Governo, che passa anche da palazzo Chigi, riuscirà a convincere il management statunitense a chiedere una nuova tranche di cassa integrazione. I manager italiani sono favorevoli, ma è la testa della multinazionale che dirà l’ultima parola.
Elica, i 400 licenziamenti saltati all’ultimo minuto. Le crisi congelate in attesa della riconversione
Sempre al Mise, dove i tavoli di crisi sono passati dai 150 del 2019 agli 85 attuali (54 aperti, il resto sono monitoraggi), è stata risolta al fotofinish la crisi di Elica. Il 30 giugno, a poche ore dalla possibilità per l’azienda di tornare a licenziare. Dietrofront, invece, con la sospensione del piano industriale che conteneva 400 esuberi nel sito marchigiano che produce cappe e piani cottura. Niente delocalizzazione in Polonia, quantomeno per ora.
Si ripartirà dal tavolo ministeriale così come bisognerà ripartire da qui se alla fine Whirlpool deciderà di non licenziare. E qui si apre un altro tema. Ci sono crisi datate e l’allungamento dello stop ai licenziamenti, in linea con un nuovo utilizzo della cassa integrazione, servirà a tenere in piedi i posti di lavoro per altri tre mesi. Tutte questi crisi potranno usufruire di tempi supplementari, il Governo potrà contribuire a individuare nuovi investitori, ma non è detto che questi tre mesi risultino decisivi. Certamente si tutelano i posti di lavoro, ma più di un ministro nel Governo legge questo assetto come un intralcio a un processo di riconversione che potrebbe essere più rapido a fronte della possibilità del nuovo arrivato di non caricarsi dei costi di tutti i lavoratori in capo all’azienda che è in uscita. Ma al momento è prevalsa la logica del provarci, anche perché gli esuberi sono un problemi per tutti quando si sta al Governo e più in generale in politica.
In questo discorso rientrano i duemila lavoratori della Jsw delle acciaierie di Piombino così come gli 800 di Dema, quelli di Bekaert, l’ex Pirelli. E poi c’è la vendita dell’Ast di Terni, altro processo che va costruito. C’è un pezzo importante dell’industria italiana che ha bisogno di risposte al di là della prospettiva della cassa integrazione che congela i licenziamenti. Altre, come Embraco, hanno già visto svanire questa possibilità: qui il primo luglio non hai mai avuto alcun significato perché le procedure di licenziamento sono partite molto prima.
L’edilizia può fare il salto inverso: dai licenziamenti alla ripresa. L’incognita del legno-arredo
L’edilizia è uno dei comparti della grande impresa che non è più coperto dal blocco dei licenziamenti. In termini di posti di lavoro è un settore che pesa tantissimo. Ma la ripresa può tenerlo lontano dalla logica dei licenziamenti di massa. I cantieri sono ripartiti, a marzo-aprile di quest’anno ci sono stati 50mila occupati in più rispetto allo stesso periodo del 2019 e le stime parlano di +150mila occupati sull’anno. Al netto di aziende che erano già in una condizione di prefallimento, come la Cmc di Ravenna, tutte le altre stanno registrando un incremento dei lavori. Vanno benissimo, ad esempio, i laterizi e i cementifici.
C’è però l’incognita del legno-arredo industriale, cioè di quelle imprese che fanno mobili per bar, ristoranti e alberghi. Qui, come spiega Alessandro Genovesi, segretario generale della Fillea-Cgil, “si rischiano contraccolpi”. Non ci sono i grandi nomi come Whirlpool perché il settore è organizzato in più distretti, ma il rischio legato ai licenziamenti non è da meno. Il pesarese, il Friuli e il Veneto, in parte la Brianza sono distretti che potrebbero essere interessati da ristrutturazioni pesanti.
I 90 dipendenti di Antenna Audio nel limbo. Che fine faranno le audioguide e le radioguide dei Musei Vaticani?
Come si diceva ci sono molte aziende che non hanno né chiesto la nuova cassa integrazione né avviato una procedura di licenziamento. Ne sanno qualcosa i 90 dipendenti di Antenna Audio Italia. Lavorano (meglio lavoravano perché tra il lockdown e le riaperture arrivate da poco sono rientrati in pochi e per pochi giorni) dentro i Musei Vaticani come audioguide e radioguide. Sono in cassa integrazione da marzo, ma un mese e mezzo fa l’azienda ha fatto perdere le tracce. Fino al 30 giugno sono stati coperti dalla cassa, ora non si sa.
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