Cercate la notizia online e la parola ricorrente, per non dire onnipresente, è “pasticcio”. A utilizzarla è pure Claudia Pratelli, Assessore capitolino alla Scuola, Formazione e Lavoro. Che alla fine lo ammette: l’esclusione di Tony Effe dal Concerto di Capodanno “era una valutazione che andava fatta prima, è stato un errore e un brutto pasticcio”.
Senza dubbio. Eppure non basta, neanche lontanamente.
Per quanto duro e quasi insultante, il termine ha un grave difetto: può indurre a pensare che si tratti di un singolo episodio. O tutt’al più di un ennesimo inciampo tra gli innumerevoli altri in cui incappano le pubbliche amministrazioni. E il Comune di Roma in particolare. Il Comune di Roma che da ormai tre anni ha come sindaco il piddino Roberto Gualtieri: con gli ottimi risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
La questione, invece, è più complessa. Non un semplice pasticcio, benché facilmente evitabile e perciò imbarazzante, ma l’emergere, o l’esplodere, di un problema di portata generale. Che è il dissidio tra libertà di espressione, specialmente in campo artistico, e contenuti che per un motivo o per l’altro appaiano deprecabili.
Il mondo politico progressista ha una vocazione storica a blandire le minoranze e si atteggia sempre a loro paladino. Sino a giustificarne i comportamenti palesemente antisociali.
Ma riguardo alla trap? Che posizione va presa nei confronti di quei vasti segmenti delle giovani generazioni che affermano brutalmente il loro bisogno di autonomia e di intensità?
Cantano così, vivono così
Il corto circuito, nel caso specifico, riguarda i testi di Tony Effe. Che sono stati accusati di essere “sessisti” perché tra l’altro parlano di donne alle quali l’aggressività maschile non dispiace affatto. Motivo per cui vi si adeguano volentieri. O la desiderano proprio.
A proposito: le femministe non direbbero “si adeguano” ma “si sottomettono”. Femministe, però, non equivale a femmine.
Tony Effe non è affatto un’eccezione. Al contrario: è in linea con gli standard della trap, i cui messaggi sono lontanissimi da qualsiasi elaborazione intellettuale. La loro matrice fondamentale non sono i ragionamenti ma le pulsioni. Che si stagliano sullo sfondo dell’insoddisfazione per la vita che si conduce e dalla quale non si vedono vie d’uscita, fintanto che si rimanga nei limiti della legalità e dei comportamenti “normali”.
Il malessere è il dato di fatto. Il malessere si tenta di scansarlo come si può. Non avendo – e nemmeno cercando – delle soluzioni collettive, ci si rifugia negli istinti elementari di affermazione.
La risposta al disagio è un miscuglio di indifferenza e di ostilità. È fare a modo proprio, insieme a quelli che condividono le stesse spinte, e sbatterlo in faccia a chi non è d’accordo.
Ci si sprofonda nell’intensità delle sensazioni: il ballo frenetico, il sesso sfrenato, l’uso delle droghe, gli scontri con gli avversari di turno. Ci si immerge in un mondo parallelo. Iper moderno per un verso. Primitivo per l’altro. Tutto diventa io/noi contro chi si mette di traverso. I legami con gli amici sono viscerali. Le ostilità con i nemici lo sono altrettanto.
“Gang” non è una variante americana di “comitiva”. La violenza che si canta non è un’astrazione artistica. Realtà e rappresentazione si intrecciano in nodi e in grovigli, generando o rafforzando dei modelli di comportamento che facciano da surrogato all’appartenenza sociale che non si sente.
E che, a dire il vero, offre ben pochi motivi per essere avvertita e rinsaldata.
Normalizzare, sfruttare
Il corto circuito è innanzitutto politico. Ma c’è un’altra contraddizione: quella tra il vasto seguito della trap e le logiche del sistema mediatico. La caccia all’audience è incessante. E senza esclusione di colpi. O di trucchi.
Il successo commerciale diventa un salvacondotto. E con la scusa di prestare attenzione a ciò che accade “nella società” si mira a risucchiare tutto nel calderone del mainstream. Trasformando anche le proposte meno allineate ai valori dominanti in altrettante esche per attirare il pubblico: quello convenzionale perché sarà stuzzicato da scenari tanto lontani dal suo conformismo, e quello anomalo facendo leva sul meccanismo, gratificante, dell’identificazione.
L’esempio classico è il Festival di Sanremo. Che guarda caso ha già inserito lo stesso Tony Effe tra i cantanti in gara nella prossima edizione e che, manco a dirlo, si affretta a legittimarlo. E allo stesso tempo a normalizzarlo: sarà anche stato intemperante, altrove, ma da noi…
“Ogni canzone – dichiara Carlo Conti – ha motivazioni diverse, ma non ci sono temi sbagliati. Tony Effe lascerà tutti a bocca aperta. Ognuno deve e può dire ciò che prova”. Marcello Ciannamea, direttore Prime Time della Rai, lo segue a ruota: “Sono in linea con le riflessioni fatte da Carlo, ma la considerazione più profonda è che il festival è una gara canora. Tony Effe ha presentato una canzone che nulla ha a che vedere con frasi sessiste“.
Oplà. Il “bad boy” non era poi così cattivo. E quei mondi da cui è venuto fuori non vanno affatto demonizzati. La turbolenza che diventa show non è un problema ma una risorsa.
E quando invece non lo diventa, restando confinata e confusa tra le ombre della marginalità e della devianza, vorrà dire che semmai se ne occuperà la polizia.
Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia
www.romait.it è stato pubblicato il 2024-12-20 17:35:57 da Redazione
0 Comments