Non mi è mai capitato, da spettatore tra spettatori, di sconsigliare la visione di un film Palma d’oro. C’è sempre una prima volta. Viva il trionfo del cattivo gusto e della provocazione gratuita nel Tempio del Cinema, grazie, Spike Lee e illustri colleghi giurati. “Titane”, Palma d’oro di Cannes 2021, è uno stracult programmato a tavolino da Julia Ducorneau, ragazza prodigio dell’horror visionario, non a caso reclutata da M. Night Shyamalan per due episodi della serie tv “Servant”. Nel frullatore di Ducorneau c’è tutto e di più : autoerotismo con le autovetture come partner, trucidi ammazzamenti seriali, travestitismo, pulp, cervelli con placche al titanio che inducono partenogenesi raccapriccianti, un capo-pompiere (Vincent Lindon) eroinomane perso, che forse per questo si ostina a vedere nella (ex) sexy-serial-killer in fuga il suo figlioletto perduto.. “Grazie per aver lasciato entrare i ‘mostri’”, ha detto piangendo la regista ai giurati. Verità sacrosanta.

Di tutto il Palmarès, manderei gli amici più cari a vedere solo tre film, in primis i due premiati ex aequo con il Grand Prix du Jury, “Un Eroe”, dell’iraniano Asghar Farhadi e “Hytti n.6”( Scompartimento n.6 ) di Juho Kuosmanen. Ma se Farhadi, grande autore bi-Oscar, è una conferma, il regista finlandese, al suo primo festival, è una vera sorpresa. La Renate Reinsve di “The Worst Person in the World”- bravina e simpatica ma niente di più- ha soffiato la Palma di miglior attrice all’onnipresente Léa Séidoux, data per certa sul podio. Ai consigliati aggiungo il giapponese “Drive My Car”di Hamaguchi Ryusuke, che ha vinto per la Sceneggiatura. A patto però che non vi spaventino tre ore di sofisticato intreccio tra Cechov e sensi di colpa, come da racconto di Murakami.

Inutile fare polemiche, perché i gusti son gusti. Ma “Ha’Berech” di Nadav Lapid, Prix du Jury ex aequo anche quello , è un film israeliano strillato e inguardabile, e se proprio il tragi-musical di Léos Carax, “Annette” andava premiato, forse la performance di Adam Driver meritava più di una regia non del tutto riuscita. Miglior attore invece, per la giuria, è il Caleb Landry Jones pluriomicida di “Nitram”, film su un massacro in Tasmania che ha costretto il governo a mettere sotto controllo le armi da fuoco.

All’entertainment ha provveduto soprattutto Spike Lee, che per undici giorni ha rallegrato i festivalieri coi suoi completini arcobaleno. Per ben due volte l’hanno bloccato in corsa mentre annunciava anzitempo la Palma d’oro. La tentazione di imbavagliarlo deve aver sfiorato più di qualcuno.

Non me la sento di gongolare perché ha vinto una regista donna, anche perché sul red carpet ( pardon: tapis rouge, i francesi non anglicizzano niente ) si consuma sempre e comunque l’arcaica womenexploitation che vuole la donna ‘da riflettori’ statuaria, agghindata, ingioiellata e tutta smorfiette. Sennò non esisti.

Ma mi conforta Marco Bellocchio, accolto da una standing ovation che, lui sì, meritava davvero. Un’ovazione analoga aveva salutato il suo “Marx può aspettare”, che da noi è già in sala. E mi confortano le due parole guida in cui ha condensato la sua idea di cinema : immaginazione e coraggio. Immaginazione e coraggio che in questo Palmarès cerchi col lanternino.





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