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Se il sistema fluviale e il nodo idraulico del bolognese fosse stato protetto da opere idrauliche e da una manutenzione capace di garantire la gestione di piene piccole, con tempo di ritorno 20 anni, gli effetti della seppur grande quantità di acqua caduta nel maggio scorso nel corso di 36 ore, potevano essere molto limitati rispetto a quelli devastanti effettivamente registrati.
Ciò perché se si mettono insieme, attraverso modelli scientifici standardizzati la grande quantità di acqua precipitata nel corso delle 36 ore al suolo, con le caratteristiche del territorio, delle aste dei fiumi, compreso il loro tempo di corrivazione, la durata della precipitazione e quindi l’intensità della stessa, allora emerge che l’evento atmosferico avrebbe come corrispondenza una piena piccola o media, rispettivamente con tempi di ritorno di 20 e 50 anni. Per il torrente Zena addirittura tra TR5 e TR10.
Ciò che alcune settimane fa era emerso in una conferenza tenuta a Lugo di Romagna dal docente Stefano Orlandini, Ordinario di Costruzioni idrauliche e marittime e Idrologia presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Modena e Reggio Emilia, si è ripetuto alcuni giorni fa a San Lazzaro di Savena, dove il docente, invitato dal locale comitato di alluvionati della val di Zena, su cui insiste l’omonimo corso d’acqua anch’esso straripato con una piena calcolata con tempo di ritorno 5 o massimo 10 anni, in sostanza gestibile con i mezzi a disposizione intervenuto in una serata pubblica. A confronto esperti per spiegare la cittadinanza cosa in realtà è successo e l’origine di una tale devastazione. Perché, come detto, un conto sono le piogge cumulate nelle 36 ore dall’evento con un totale di circa 780 milioni di metri cubi caduti, un altro è l’impatto sul terreno e sui fiumi con le loro caratteristiche.
E il risultato è quello detto.
In sostanza tutti i fiumi romagnoli hanno straripato per piene piccole gestibili da un sistema fluviale che per garantire un livello minimo di sicurezza dovrebbe reggere una piena centenaria.
‘L’analisi di Orlandini offre un quadro oggettivo di quanto successo e toglie ogni alibi alla regione e alla propaganda’ – afferma Massimo Neviani referente del Comitato Salute Ambientale Campogalliano.
La ricorrenza dell’evento meteorologico compreso tra il 16 e il 18 maggio in Romagna è di 20 anni, massimo 50, ben al di sotto di quanto un sistema territoriale potrebbe e dovrebbe reggere sulla base delle possibilità attuali. I sistemi fluviali, se ben dimensionati e mantenuti, hanno la possibilità di gestire eventi di questo tipo ma non è successo. Il territorio romagnolo si è dimostrato incapace di gestire le precipitazioni. I 781 milioni di metri cubi di acqua caduti e misurati dai 95 pluviometri ci dicono che siamo di fronte ad un evento grande, raro, ma non ci si può fermare a questo dato. Se relazionato alla durata delle 36 ore e ad un tempo di corrivazione dei bacini maggiori del territorio romagnolo di 12 ore, emerge come evento con tempo di ritorno 20 anni, nella maggior parte dei casi e in alcuni casi 50, comunque non superiori a quelle che sono le possibilità di controllo.
In sostanza non così grande e non così eccezionale da non potere essere gestito sulla base delle possibilità oggi a disposizione. Non solo sul piano tecnico, ma anche politico. Considerando che la messa in sicurezza dei nodi idraulici è fissata sul piano istituzionale in riferimento ad eventi con tempo di ritorno 200 anni. Riferimento dal quale sia la Romagna che Modena con il suo bacino idraulico sono ben lontani, con i loro TR20 (Secchia) e al TR50 (bacino Panaro)
Dati in grado di sconfessare la narrazione parziale e di parte soprattutto dei politici di governo regionale che in nome del cambiamento climatico e dell’evento senza precedenti verso il quale nulla si può fare, declinano ogni responsabiità, affermando che non si poteva fare di più di quanto è stato fatto. La scienza ci dice che non è così e qualcuno forse dovrebbe trarne conclusioni.
Ma c’è di più in termini di responsabilità politica, ovvero il tema delle manutenzioni e della pulizia degli alvei. Che, è evidente, in Romagna ha avuto diverse criticità. ‘Manutenzione che – spiega Orlandini – non significa togliere la vegetazione spontanea all’interno dei tratti artificiali arginati, che ha diversi benefici tra cui quella di garantire il microcilima, evitare il riscaldamento eccessivo dell’acqua in estate, ma concentrarsi su quella infestante e sulla rimozione dei sedimenti nell’alveo. I sedimenti vanno rimossi’.
Gianni Galeotti
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