ATRI: IL TEATRO COME EREDITA’ CULTURALE DI UNA VITA, LA STORIA E LA PASSIONE DI ALBERTO ANELLO | Notizie di cronaca


ATRI – Atri, cittadina dalla storia millenaria, in provincia di Teramo, con le sue tradizioni culturali e il patrimonio artistico che affonda le radici nel lontano periodo romano, ha sempre saputo valorizzare la bellezza delle sue tradizioni. È proprio in questo contesto che si inserisce la storia di Alberto Anello, un uomo che ha diviso la sua vita tra la carriera come impiegato comunale e la sua grande passione: il teatro.

Nato ad Atri nel 1956, Alberto, che oggi ha 68 anni, ha saputo trasformare la sua passione in un impegno che lo ha visto crescere artisticamente, fino a diventare uno dei punti di riferimento culturali della città. Oggi, in pensione, dedica il suo tempo completamente al teatro, portando avanti una lunga tradizione familiare che affonda le radici nell’amore per l’arte e la cultura del suo territorio.

 

Dal lavoro alla scena: una vita dedicata al teatro.

Sono un ex dipendente comunale in pensione e ora mi dedico completamente al teatro e al mio cane. Il teatro è la mia grande passione e ora posso finalmente concentrarmi esclusivamente su di esso. In passato, le difficoltà economiche non mi hanno permesso di farlo a tempo pieno, ma il mio lavoro presso il comune mi ha dato la libertà di viaggiare e studiare. Ho frequentato corsi di teatro a Chieti, presso il “Teatro Marruccino”, poi ho proseguito con la scuola di regia, e infine ho perfezionato la mia formazione collaborando con Lorenzo Salveti dell’”Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico”.

Tra palcoscenico e vita: il teatro come rifugio e sfida.

Il teatro per me è una forma di follia: sul palco mi trasformo, sentendomi a mio agio, mentre nella vita quotidiana spesso mi sento fuori posto, come se non riuscissi ad adattarmi. Non so se il teatro mi ha aiutato a trovare me stesso o aumentato la mia confusione, ma è una forza vitale che non potrei fare a meno di portare dentro di me. Tuttavia, l’assenza di orari regolari rende difficile trovare equilibrio con la vita quotidiana, e questo crea complicazioni anche nel matrimonio.

Impegno e libera espressione: la storia di un anarchico e del suo lavoro.

Non mi interessa la politica, mi considero un anarchico. Da giovane, ho aderito a “Lotta Continua” perché credevo in un mondo migliore, anche se eravamo troppo arrabbiati e mancava il dialogo con chi aveva opinioni diverse. In 43 anni di lavoro, ho visto la politica tutelare solo pochi privilegiati, ignorando le esigenze della maggioranza. Lavorando al “SUAP – sportello unico per le attività produttive” mi occupavo di ditte, associazioni e lavoro, ero sempre dalla parte della gente, senza preoccuparmi troppo di orari o formalità. Le persone mi apprezzavano per il mio impegno. Inoltre, mi occupavo dell’organizzazione di eventi culturali per il Comune di Atri, come spettacoli, concerti e sagre, un lavoro che mi dava grande soddisfazione e che mi legava alla comunità.

Teatro e Tradizione: la storia di una passione familiare.

Mio padre, regista teatrale, mi ha fatto vivere fin da bambino nell’atmosfera del teatro. Nel 1976, insieme a mio fratello, che oggi non è più tra noi, fondammo la compagnia “Teatro Minimo”, dove sono passate molte persone che hanno condiviso con me la passione per il teatro. Abbiamo prodotto molte opere e visto crescere talenti come Valeria Angelozzi, che è diventata un’attrice professionista. Il nostro teatro era improntato sul “verismo”, usando anche un “linguaggio del loco” che rispecchiava la realtà del territorio, invece del dialetto atriano, che trovavo troppo complesso per il palco. Mio padre, che aveva lavorato sia nel dialettale che nell’italiano, ha lasciato un’impronta significativa nella comunità di Atri. Con la compagnia Teatro Minimo, collaborammo anche con il coro Antonio Di Iorio, celebre musicista abruzzese, con il quale producemmo due commedie musicali e un’operetta. Tra queste, l’operetta “Da Livorno a Portoferraio”, con testo di Alessandro Billi e musiche di Di Iorio, che ho diretto. Nonostante non fosse il mio genere preferito, ho trovato molto soddisfacente il lavoro. Inoltre, ho lavorato su testi di mio padre, tra cui “Una sera d’agosto”, che racconta la storia di una famiglia contadina. In questa commedia, l’amore si intreccia con la violenza del padre verso la figlia, alla quale che impone un pretendente ricco, ignorando l’amore che la ragazza prova per un giovane povero ma sincero. Alla fine, come in ogni buona commedia, è l’amore a trionfare, ma la trama esplora anche la rigidità dei costumi dell’epoca e le difficoltà imposte dalle convenzioni sociali.

Maschere e pantomime: la magia della commedia dell’arte nel Teatro.

Amo la scultura e mi piace creare maschere in cartapesta per il teatro. Nel mondo del teatro, è essenziale saper fare tutto, incluse le maschere, ma non basta: bisogna anche saperle animare, muoverle con maestria, togliere e mettere lo zanni, come nella tradizione della commedia dell’arte. Questa forma teatrale mi affascina profondamente, soprattutto per le sue pantomime, che trovo incredibilmente espressive. Colleziono con passione tutte le maschere della commedia dell’arte: da “Pulcinella”, cornuto e mazziato, ad “Arlecchino”, fino a “Pantalone” dei bisognosi. Ogni maschera racchiude un universo di storie e caratteri che amo esplorare e portare in scena.

Infanzia e Memorie.

Sono nato dieci anni dopo la Seconda Guerra Mondiale nel 1956, in un quartiere di Atri, San Domenico segnato dalla povertà e dalle cicatrici del conflitto post “Seconda Guerra Mondiale”. Noi bambini giocavamo alla guerra, ma senza crudeltà, in un legame speciale che oggi sembra raro. Le case erano sempre aperte, e se qualcuno era in difficoltà, non mancava mai un piatto di minestra. Mia nonna Carmela, una donna profondamente credente, era sempre pronta ad aiutare, mentre mio nonno Michele, Cavaliere di Vittorio Veneto e reduce della Prima Guerra Mondiale, condivideva storie di trincea che sono ancora vive nella mia memoria. Mi diceva spesso: “Alberto, tu nella vita non combinerai nulla”, sottolineando la mia sensibilità che considerava “fessa”. Non capiva il mio legame con gli animali, ma con il tempo ho compreso che la sua osservazione era una riflessione sulla mia natura. La mia infanzia è stata felice, immersa in un mondo semplice, fatto di legami autentici e solidarietà, momenti che oggi ricordo con affetto.

La mia sensibilità, che allora sembrava una stranezza, è diventata una parte fondamentale di chi sono. Ho vissuto nel quartiere di San Domenico, un microcosmo a sé, dove uscire dai suoi confini significava entrare in un altro mondo. Ogni giorno giocavamo a calcio; me la cavavo, ma per diventare calciatore serviva testa, cosa che mi mancava. Ricordo che quando si giocava a guerra c’erano due fazioni, noi di San Domenico contro il quartiere di Capo D’Atri il campo di guerra era a limite tra i due quartieri con tanto di trincee che ci separavano. Un giorno catturammo un ragazzo del quartiere avversario, tenendolo prigioniero per tre giorni. I suoi genitori allertarono le autorità, e il Maresciallo dei Carabinieri ci fece un richiamo ufficiale. Avevo solo cinque anni quando successe, però quella era la nostra vita: la strada, la libertà.

Un altro episodio significativo fu il mio primo giorno d’asilo negli anni ’60, avevo 4 anni, allora l’educazione era severa e violenta. Decidemmo di scappare da scuola io il mio amico “Zuzù” perché le maestre erano spaventose. Scappammo passando tra le ringhiere del cancello. Mio padre mi diceva che dovevo andare a scuola per essere educato, ma io mi sono semore ribellato alla violenza. In quarta elementare, mi opposi quando la maestra colpì un mio compagno che si sentii male in classe. Fui sospeso per sei giorni. Tornato a scuola, la maestra mi osservava sapendo che io ero contro il suo atteggiamento violento. Mi fece poi una dedica sul primo libro che lessi, “Il libro Cuore”, mi colpì questo gesto, nonostante ciò considero Il libro cuore un testo del tutto ipocrita.

Atri: tra Storia, cultura e tradizioni religiose.

Atri è una cittadina antichissima, con tremila anni di storia da raccontare. Durante il periodo romano, il “Populus Atriano” vantava un’estensione straordinaria, che si spingeva da Montesilvano fino a Giulianova. Atri fu una colonia romana, ma la sua storia precede quella di Roma: ben 300 anni prima della fondazione della città eterna, Atri aveva già coniato moneta. Questa lunga e ricca eredità culturale permea ancora oggi la vita cittadina: ad Atri si respira la storia e la cultura accumulatesi nei secoli. Possiamo dire, in un certo senso, che abbiamo contribuito a civilizzare. Atri ospita il “Teatro Romano”, una testimonianza di come il teatro fosse già parte della vita locale in epoca antica. A questa tradizione si aggiunge il “Teatro Comunale”, un gioiello architettonico progettato nel 1850, completato e inaugurato nel 1881, poco dopo l’Unità d’Italia. Questo teatro, di una bellezza straordinaria, è considerato una miniatura del “Teatro San Carlo di Napoli”. Non è un caso: Atri faceva infatti parte del Regno di Napoli, sotto Ferdinando di Borbone, e le sue radici culturali sono fortemente partenopee. Anche l’influenza del clero ha lasciato un’impronta profonda nella storia della città. Atri vanta ben 14 chiese, tra cui “la Chiesa di San Nicola”, la più antica, risalente al XIII secolo, e la magnifica “Basilica di Santa Maria Assunta” dello stesso periodo. Inoltre, vi è un ex convento oggi “Chiesa di San Francesco D’Assisi” risalente al tempo di San Francesco, perché proprio un atriano, San Filippo Longo, seguace del Santo, fu canonizzato qui. Ad Atri, la presenza di vari ordini religiosi ha arricchito la cultura locale. Francescani e domenicani, spesso in conflitto tra loro, hanno lasciato segni tangibili. I domenicani, erano dottori di teologia, mentre i francescani rimasero fedeli all’ideale di povertà e semplicità di San Francesco. A questi si aggiungono i frati cappuccini, i gesuiti, gli agostiniani scalzi e i benedettini, che hanno tutti contribuito a plasmare l’identità culturale della città.Un luogo emblematico di questa ricca tradizione religiosa è il “Monastero delle Clarisse”, dove entrare equivale a fare un salto indietro nel tempo, fino al cuore del medioevo. Questi ordini religiosi hanno influenzato profondamente la nostra cultura, contribuendo anche a modellarne alcune chiusure mentali, ma sempre lasciando una traccia indelebile della loro presenza. Personalmente, non mi definisco credente, mi turba vedere persone che si definiscono credenti, ma non comprendono il messaggio di Cristo. Credo piuttosto in un mondo senza violenza e in una pace universale. Trovo assurdo che si spendano miliardi per le guerre quando ci sono bambini che muoiono di fame.

La liquirizia di Atri: storia, tradizione e sviluppo agricolo.

La liquirizia è il prodotto tipico di Atri, ha origini che risalgono ai frati domenicani nella zona di San Domenico, dove crescevano piantagioni naturali di radice. I frati cuocevano la radice, trasformandola in una pasta utile per la digestione. Personalmente, non la trovo molto di mio gusto. Nel 1837 fu fondata la prima fabbrica di liquirizia di Atri. Alla radice di liquirizia si aggiunsero zucchero e melassa, trasformandola in un dolciume e creando numerose opportunità di lavoro nel territorio. Oggi Atri è ancora una zona agricola, con oltre 800 aziende che producono una vasta gamma di prodotti, dal vino, all’olio, al formaggio, in un territorio ricco di risorse naturali.

Un Viaggio di Non Giudizio e Speranza.

Non mi considero maestro di nulla, nonostante il mio ruolo di regista teatrale. Per me, stare insieme, aiutarsi e non giudicare sono principi fondamentali. L’ho imparato facendo teatro in carcere, conducendo laboratori nel penitenziario di Pescara, a San Donato. Lì ho incontrato persone in difficoltà e non riuscivo a capire perché fossero lì, mentre fuori c’erano persone che sembravano peggiori di loro. L’educatrice mi consigliava di non farmi impietosire dalle loro storie, ma io vedevo come vivevano in uno spazio di 4 metri quadrati, e quando qualcuno non li giudicava, si aprivano. Li vedevo come attori, non dovevano essere altro per me. L’esperienza è stata bellissima. Ho iniziato nel 2017 e concluso nel 2019 con degli spettacoli, coinvolgendo 20 detenuti e alcuni volontari. Un ragazzo albanese mi disse: “Ti ringrazio perché sono nessuno, nessuno mi darebbe un euro, ma oggi ho visto tutta questa gente che mi ascoltava e per me è stato bellissimo”. Questo è il senso del teatro: farti credere nelle tue possibilità e rinascere. Il carcere non ha lo scopo di punire fisicamente, ma di rieducare, redimere e migliorare, farti capire che quello che hai fatto è sbagliato, ma che hai ancora cose positive da offrire. Questo è l’esempio che posso dare: mai giudicare!

Note di Vita.

Mi piacciono il blues e il jazz, ma la mia canzone preferita è di Fabrizio De André: “La canzone di Marinella”. È una canzone un po’ triste, una poesia che racconta la storia di una donna e di un amore che durerà per sempre. Viva l’amore, sempre, anche se le persone sono distanti. Mai mettere barriere.

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