Bari, innocente in cella 193 giorni: dopo 23 anni sarà risarcito



Ventitré anni per avere giustizia, dopo aver perso tutto: libertà, dignità, lavoro. Una storia, come diverse purtroppo, di malagiustizia. Coinvolto nel 2000 in una maxi inchiesta antimafia sul traffico di droga dall’Albania alla Colombia attraverso la Puglia, finito in carcere per 193 giorni e poi processato per un ventennio, è stato poi definitivamente assolto dal Tribunale di Bari e ora la Corte di Appello gli ha riconosciuto un risarcimento per ingiusta detenzione.

Protagonista della vicenda un grosso imprenditore svizzero, l’architetto 77enne Romeo Casola, titolo nobiliare di barone con agganci in Vaticano (aveva anche contribuito alla costruzione di nuove chiese) e affari in Sud America. La sua società, negli anni Novanta, era proprietaria anche di cave di granito in Venezuela. La sua holding aveva aziende in Lussemburgo, in Italia e in Venezuela, tutte gestite da Lucerna. In Germania si occupava del management del monopolio del tabacco e in Arabia Saudita aveva cominciato a produrre droni militari. Nel Paese sudamericano, in particolare, dopo il ritrovamento di una cava di granito, aveva elaborato con la sua società che aveva sede a Milano un programma di sviluppo su un territorio di 160 km di strada naturale e aveva tagliato circa 20mila tonnellate di blocchi di granito.

Il suo ruolo – ipotizzava l’Antimafia barese – era quello di supporto logistico al trasporto di cocaina via mare. Era il maggio del 2000 quando, durante un incontro occasione con una sua vecchia conoscenza greca – un uomo conosciuto a Londra negli anni Ottanta – chiese aiuto per il trasporto del granito su nave. L’imbarcazione, di proprietà di un amico messicano della sua conoscenza londinese, si chiamava Suerte (fortuna). Quella non ha portato a lui.

Nel giro di qualche mese, infatti, l’Antimafia pugliese che in quel periodo stava intercettando i narcotrafficanti colombiani si imbatté in Casola, ritenendolo loro complice. L’imprenditore finì in cella il 18 agosto 2000 e vi è rimasto per 193 giorni.

In 21 finirono alla sbarra, molti dei quali alla fine condannati. Non Casola, che al termine del lungo processo, è riuscito a dimostrare la sua innocenza. In carcere l’indagato si è sottoposto a diversi interrogatori, negando sempre un suo coinvolgimento nel traffico di cocaina dal Sud America all’Europa. «Il progetto in Venezuela – spiegò tra le altre cose il professionista agli inquirenti baresi – avrebbe assicurato utili di gran lunga superiori a qualunque traffico illecito, attraverso lavoro onesto offerto a molte centinaia di persone e con la possibilità di realizzare benessere per migliaia, sicché non sarebbe stato così stupido da rovinare questo progetto immischiandosi in vicende di droga». Anche un collaboratore di giustizia, un ex narcos colombiano, durante il processo spiegò ai giudici che Casola non aveva nulla a che fare con le loro attività illecite e non poteva sapere che la nave Suerte dovesse trasportare cocaina oltre al carico lecito, al suo granito venezuelano. È stato assolto – con sentenza irrevocabile – a fine 2019 «per non aver commesso il fatto».

Finalmente dichiarato innocente, Casola ha iniziato la sua nuova battaglia per ottenere il riscatto anche economico di quanto patito. Assistito dagli avvocati Filippo Castellaneta e Rosanna De Canio, si è rivolto alla Corte di Appello di Bari perché gli riconoscesse un risarcimento per la ingiusta detenzione di vent’anni prima. E così è stato. Nelle scorse settimane, 23 anni dopo l’arresto e 4 dopo la fine del processo, i giudici hanno stabilito un indennizzo di 45.355 euro, 235 euro per ciascuno di quei 193 giorni trascorsi in cella.

«Questa storia mi ha rovinato la vita». Sono le parole, dal tono rassegnato ma a tratti ancora combattivo, di Romeo Casola, la cui vita è rimasta sospesa per 23 anni, dopo l’arresto ingiusto con l’infamante accuse di essere complice di narcotrafficanti. «Tutto è andato per aria. La vita è andata così, – dice – ormai ho la mia età e mi sento pulitissimo, nonostante l’umiliazione grandissima che ho subito». Ma la battaglia non è detto che sia finita, perché ora pensa a un nuovo ricorso per ottenere una «equa riparazione» per la irragionevole durata del processo (ricorso ai sensi della legge Pinto) in cui è stato coinvolto.




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www.lagazzettadelmezzogiorno.it è stato pubblicato il 2023-11-13 13:24:06 da


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