Brindisi, per l’omicidio Carvone la pm chiede il carcere a vita per Ferrarese: «non merita attenuanti»


«Chiedo l’ergastolo per Giuseppe Ferrarese». La pm della Dda di Lecce, Carmen Ruggiero, ha invocato il carcere a vita per il 28enne brindisino, sotto processo per l’omicidio di Giampiero Carvone, il 19enne ucciso a colpi di pistola nella notte fra il 9 e il 10 settembre 2019, in via Tevere, nel rione Perrino, davanti al portone della palazzina in cui viveva con la famiglia.

«Ferrarese fa la sua scelta», ha detto la pm alla Corte d’Assise di Brindisi, presieduta da Maurizio Saso. «Noi dobbiamo valutare qual è il significato: merita le attenuanti generiche? No, perché non solo è un pregiudicato, ma soprattutto perché la sua confessione è una scelta difensiva di opportunità che si muove tra i meandri dell’istruttoria dibattimentale e non dà nessun contributo alla verità», ha sottolineato nella parte finale della requisitoria, terminata nel pomeriggio e iniziata in mattinata.

«Ma è ancora una volta asseverare l’imperativo dell’omertà, del silenzio», ha aggiunto. «Mi assumo io la responsabilità, non faccio i nomi di nessuno, dico che c’eravamo solo io e Giampiero Carvone e la finiamo qui».

L’imputato, in carcere dal 27 giugno 2022, è accusato di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dai futili motivi e dall’aver agevolato l’associazione mafiosa Sacra corona unita.

Carvone sarebbe stato «promesso ad Andrea Romano, capo dell’omonimo clan di Brindisi, tramite un affiliato» e avrebbe «pregiudicato gli interessi dei gruppi» che controllavano la città agendo come «cane sciolto, fuori delle regole e in violazione del vincolo di omertà». Il 19enne sarebbe stato ucciso perché avrebbe indicato Ferrarese come suo complice «nel furto dell’auto», avvenuto la mattina precedente.

Interrogato, Ferrarese ha detto di aver litigato con Giampiero Carvone dopo il furto di un’auto e di aver sparato usando una pistola non sua, «non per fargli del male ma solamente per farlo allontanare». La pistola era una calibro 7,65 e non è mai stata trovata.

Questa versione, per la pm della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, non è vera, stando agli accertamenti: «Se davvero voleva allontanarlo, avrebbe sparato in aria», ha detto. «Carvone se ne stava andando, gli dava le spalle, ed è caduto perché colpito. Questo ci dice la pozza di sangue sull’asfalto e questo è confermato dal fatto che non sono stati trovati proiettili lì né tantomeno scalfiture».

A trovare il giovane in quella pozza di sangue è il padre, Piero Carvone, che sentiti gli spari, si affaccia, poi corre giù per le scale e «stringe la mano del figlio». Quando la pm ha descritto quei momenti, in aula c’è stata commozione tra i familiari del ragazzo che si sono costituiti parte civile con l’avvocato Marcello Tamburini. I genitori e la nonna hanno sempre preso parte alle udienze ascoltando in silenzio.

La pm ha ricordato lo scambio di messaggi su WhatsApp tra i genitori e il 19enne, quella sera. «Non volevano che uscisse». E tutti i tentativi fatti dal padre del giovane, subito dopo l’omicidio, per capire cosa fosse successo e chi avesse sparato e ucciso suo figlio. «Questo processo – ha detto la pm – ci ha raccontato di come al Perrino, tutti sapessero tutto di tutti. Ma non ci sono le dichiarazioni di quelli che erano gli amici di Giampiero Carvone, che si vogliono tenere fuori», ha rimarcato. «Fanno dichiarazioni false e reticenti e non meritano la parola amici».

La pm ha anche ricordato il coraggio di una donna, madre di due figli, che ha smentito l’alibi di Ferrarese per quella sera, diventata poi testimone e costretta a lasciare la città. «Ha raccontato la verità nonostante le minacce». Stando a quanto emerso dalle indagini, venne minacciata da Orlando Carella, 54 anni, per il quale lavorava in una pizzeria: «Mucciamo il ragazzo», le disse mettendole una mano sulla spalla. Per Carella, accusato di subornazione di testimone per aver intralciato la giustizia, la pm ha chiesto la condanna a 5 anni e tre mesi.

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