Calanchi del Marchesato: epifania delle sabbie – VIDEO


CROTONE Come si fa a trovare il sonno dopo un giorno così? Un giorno benedetto. In cui Dio si è manifestato in forma visibile, anzi palpabile. Non solo gli occhi hanno avuto il privilegio di testimoniare l’epifania, ma anche la pelle, le mani, i piedi. E così, la mente, affollata di pensieri, immagini, emozioni, si scioglie, stanotte, in forma di parole. Piccole conchiglie fossili emergono dalla sabbia. La creta grigia screpolata come un cesello, come un ricamo: patina bianca, salina, come un lichene primordiale. Ricordo di ere antichissime, in cui l’oceano mare era quassù. Basta chinarsi per vederle le conchiglie, che emergono dalle marne e le argille come piccoli gioielli d’avorio intarsiato. Ciascuna una perfetta spirale, che s’avvolge attorno alla casa del mollusco. Gasteropodi vecchi milioni di anni: un bravo orafo potrebbe montarli per farne orecchini da donare a mia figlia. Ma indosserebbe, una giovane donna, un monile così vecchio? Capirebbe quel privilegio delicato e sontuoso, semplice e vero che viene dal passato?
Con nella mente queste domande arranco verso un colle, fra erbe dai lunghi steli che si flettono nel vento come anemoni nel mare. Cammino zoppicando. Gli ultimi due mesi schiena a caviglia hanno ripreso a dolere. Una grande stanchezza mi ha assalito. Il mio fisico ha ceduto sotto il peso incommensurabile della psiche. Capita nella vita. In certi momenti opachi, innescati da una scintilla senza luce. Mi sto forzando. Per provare il mio stato, la mia resistenza, la mia speranza di costringere il tempo a indugiare ancora una volta. Domenico, Alessia, Elisabetta e gli altri sono i miei spiriti guida. Ad ovest si diradano le nubi plumbee che ci hanno seguito con la pioggia sin dal buio del mattino. Mentre l’aurora dalle dita rosate sorgeva a oriente. E Apollo Helios ha iniziato a salire nel cielo, con la traiettoria obliqua dell’inverno. Spandendo i suoi dardi di luce verso di noi. Il mio sguardo è rivolto a terra, dove piccoli fiori d’inverno brillano come quarzi e rubini e oro. Giunto al culmine, lo sguardo si solleva lento, guidato dai raggi del sole e dall’ombra delle nubi, presago del prodigio che verrà. E d’improvviso si squaderna dinanzi agli occhi l’immensa teoria di colline e valloni, che da Cutro scivola e si spande sino a Roccabernarda, sino a Santa Severina, sino a San Mauro Marchesato.
Un mondo appartato, ignorato, perduto. E mentre gli occhi faticano a mettere a fuoco quella visione e la retina a tradurre la visione in stupore, sulla sinistra, lontana, come un’oscura onda anomala, la Sila, gravida di selve, ancora affonda le sue cime nelle nubi dell’occidente. È il labirinto del Marchesato Crotonese, che però da quassù pare una grande steppa ondulata con i ruvidi fusti delle ferule, da cui i pastori ricavavano i vincastri, con gli stecchi degli asfodeli e i cespugli filiformi sferzati dal vento.
Scioddre” (terre che franano, si disfano) erano per i locali questi luoghi sconfitti solo dalle pecore, aridi, instabili, fangosi durante le rare piogge, screpolati e secchi nei lunghi periodi di siccità. Quando la gente del paese vedeva i miei amici scendere e salire nel labirinto, li osservava come avesse a che fare con dei pazzi che cercavano luoghi senza valore, senza vita. Luoghi perduti! Ora, che i miei amici hanno lottato perché non vi realizzassero l’ennesima discarica, per convincere la gente che non c’è prezzo per comprare la dignità, che bisogna guarire dall’amnesia dei luoghi, dal coma topografico, le comunità cominciano a guardare meravigliate ai calanchi.
In una comunità che non ha memoria, quando qualcuno prova a mostrare la bellezza dei luoghi perduti, le risposte sono sempre uguali. Prima: “Non c’è niente”. Dopo tempo: “Si c’è, ma non vale nulla”. Dopo altro tempo, magari quando studiosi, giornalisti, televisioni, curiosi, visitatori, hanno sfilato dinanzi ai bar del paese: “Abbiamo un paradiso. L’ho detto prima di voi”.
A Cutro e negli altri paesi, grazie ad un pugno di pazzi, i calanchi sono tornati paesaggio storico per eccellenza del Marchesato, che restituisce attraverso mille segni, il legame indissolubile fra il mare e le montagne. Un legame fatto di vite, transiti, economie. Mentre rientriamo, nelle ore centrali della giornata, risalendo verso la collina di Cutro, ansimando, sudando, sento che il mio corpo è come rinato, che il dolore è scomparso. Grazie alla taumaturgia dei calanchi, all’epifania delle sabbie, in cui Dio si è manifestato. Grazie al visibile che ci ha aperto gli occhi sull’invisibile. Grazie all’amore che ci ha restituito la memoria. ([email protected])

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www.corrieredellacalabria.it è stato pubblicato il 2025-01-07 06:54:41 da Redazione Corriere


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