Dal mobbing sul luogo di lavoro allo stalking occupazionale


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Confermata l’applicabilità della fattispecie degli atti persecutori ex art. 612 bis c.p. alle condotte di mobbing sul luogo del lavoro tutte le volte in cui le condotte reiterate nei confronti dei lavoratori si traducano in comportamenti molesti idonei a provocare uno status di annientamento psicologico.

Il termine “mobbing” (dall’inglese “to mob”, verbo che significa “aggredire, attaccare”) è ormai da diverso tempo entrato nel linguaggio non solo giuridico, ma anche comune, per indicare un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima.

Inizialmente descritto e studiato da sociologi e psicologi, il fenomeno del mobbing ha in seguito trovato rilievo anche nelle aule di tribunale. In assenza di una apposita normativa, la giurisprudenza ha definito il mobbing come una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei membri dell’ufficio o dell’unità produttiva in cui è inserito o da parte del suo datore di lavoro, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

Le condotte in grado di integrare il fenomeno del mobbing possono essere le più diverse: il lavoratore che ne è vittima potrebbe ritrovarsi ad essere isolato all’interno dell’ambiente lavorativo, venendo ad esempio relegato in una sede o in una postazione particolarmente scomoda o venendo escluso da riunioni, progetti, comunicazioni aziendali, corsi di aggiornamento e altre attività; potrebbe divenire bersaglio di battute, pettegolezzi, insulti e comportamenti ostili di vario genere, così come ritrovarsi al centro di una vera e propria campagna diffamatoria portata avanti nei suoi riguardi; potrebbe vedersi improvvisamente sottrarre mansioni sino a quel momento ricoperte oppure essere assegnato a mansioni inferiori e dequalificanti, o ancora, all’opposto, trovarsi a dover gestire da solo carichi di lavoro intollerabili; potrebbe trovarsi esposto a più intense ed assillanti forme di controllo da parte del datore di lavoro, ad esempio durante lo svolgimento delle proprie attività o in occasione di assenze per malattia; potrebbe vedersi privare di determinati benefit aziendali sino a quel momento goduti o vedersi rifiutare sistematicamente permessi, ferie ed altre richieste; nei casi più estremi, potrebbe essere licenziato senza alcuna motivazione; talvolta, potrebbe addirittura divenire bersaglio di violenze sul piano fisico o di aggressioni alla sfera sessuale.

Con la pronuncia in esame, la Quinta Sez. penale della Suprema Corte di Cassazione ha affermato che integra delitto di atti persecutori ex art. 612 bis del c.p. la condotta di mobbing del datore di lavoro qualora ponga in essere una specifica e reiterata azione finalizzata ad esprimere ostilità verso il dipendente, preordinata alla sua mortificazione ovvero al suo isolamento nell’ambiente lavorativo. Per comprendere a fondo la decisione degli Ermellini, occorre prendere le mosse da una brevissima ricostruzione fattuale.

Segnatamente, l’imputato era stato condannato in entrambi i gradi di giudizio per il reato di atti persecutori avendo perpetrato nei confronti dei dipendenti della medesima società una serie di atteggiamenti denigratori, consistiti nella prospettazione di licenziamenti, minacce di pretestuosi addebiti disciplinari, istigazioni allo scontro fisico nonché pubbliche mortificazioni integranti spesso il reato ex art. 595 del c.p.. Tali condotte provocavano nei dipendenti un forte e duraturo stato di ansia e di paura, tale da costringerle a modificare le proprie abitudini di vita per paura di incontrare nei corridoi dell’azienda il datore di lavoro. All’esito dei due gradi di giudizio, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione lamentando nella parte che qui interessa il travisamento di una prova decisiva, ex art. 606 del c.p.p. comma 1, lett e) in quanto sosteneva che le iniziative attuate puntavano esclusivamente ad un aumento di produttività dell’azienda.

Tale censura è stata tuttavia correttamente disattesa dalla Cassazione. Secondo l’ormai granitico orientamento della giurisprudenza, infatti, mobbing, inteso come reiterata attuazione di condotte finalizzate ad isolare la vittima ed escluderla dall’ambiente di lavoro, integra il delitto di atti persecutori laddove produca uno stato di prostrazione psicologica che si manifesti con uno dei tre eventi tipizzati dall’art. 612 bis c.p: 1) un perdurante e grave stato di ansia e paura; 2) il fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone legate da relazioni affettive alla vittima; 3) l’alterazione delle abitudini di vita.

A tale uopo, la Corte di Cassazione, nel definire la fattispecie applicabile anche al c.d. “stalking occupazionale”, ha dichiarato che per la sussistenza del delitto di cui all’art. 612 bis c.p. è sufficiente il dolo generico nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice. Segnatamente, nel caso di specie, il ricorrente, avendo ripetutamente vessato le persone offese, minacciandole di “cementarle in un pilastro” ovvero più volte istigandole ad uno scontro fisico, sottoponendole a rimproveri mortificanti, aveva posto in essere comportamenti caratterizzati dalla consapevolezza di generare uno degli eventi di condizionamento psicologico indicati dall’art. 612 bis c.p. Secondo i giudici di legittimità, inoltre, nessun rilievo può essere riconosciuto al fatto che le condotte dell’imputato fossero finalizzate ad efficientare la società per renderla più competitiva nel mercato poiché tale obiettivo non può essere raggiunto attraverso la persecuzione e l’umiliazione dei dipendenti ed, in generale, mediante la commissione di delitti ai danni della persona dovendo la tutela dell’individuo in ogni caso prevalere sugli interessi economici.

In conclusione, alla luce del decisum in commento, il mobbing praticato sul luogo di lavoro configura il delitto di atti persecutori tutte le volte in cui le condotte reiterate nei confronti dei lavoratori si esplichino in comportamenti molesti idonei a provocare lo status di annichilimento psicologico delineato dall’art. 612 bis c.p.

avv.mimmolardiello@gmail.com  
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buonasera24.it è stato pubblicato il 2024-09-04 06:36:44 da Avv. Mimmo Lardiello

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