GROSSETO. Un pozzo di conoscenza, un pezzo di storia, un lucido testimone delle radici cattoliche della nostra città e della Maremma: ascolti don Franco Cencioni e un po’ ti commuovi, perché a 98 anni e mezzo, è nato il 13 luglio del 1926, trasmette un’energia che ti contagia e che il bastone che usa per camminare non scalfisce. Anche perché le scale per il suo ufficio, all’ultimo piano del palazzo della Diocesi in corso Carducci, le sale e le scende senza: «Lo uso perché ogni tanto barcollo un po’, ma non mi serve davvero…».
Don Franco salta dai ricordi dei suoi primi anni da sacerdote, fu ordinato a Porto Santo Stefano dal vescovo Paolo Galeazzi il 23 dicembre del 1950, ai problemi della Grosseto di oggi.
Come un Catone, un Gracco, un Cicerone, ricollega il discorso dopo lunghi incisi, cita nomi e date a memoria e tiene insieme il filo del ragionamento paragonando la Chiesa dei primi anni dopo i Patti Lateranensi (i patti fra Regno d’Italia e Santa Sede, 11 febbraio 1929, don Franco era un bambino, ma c’era) a quella di oggi che deve misurarsi con un mondo profondamente cambiato e distaccato.
Un mondo egoista, distratto da falsi miti, meno profondo e riflessivo.
Ma una parola domina l’ora di chiacchierata in una stanza della Diocesi: speranza.
Sarà che il 2025 è l’anno del Giubileo della speranza, ma don Franco non aveva (e non ha) alcuna intenzione di arrendersi ancora prima di leggere la bolla di Papa Francesco “Spes non confundit“.
«Ai giovani sacerdoti dico una cosa sola, state in mezzo alla gente. Non vi chiudete nelle stanze delle parrocchie. Vivete tanto tempo fuori dalla chiesa. Ma non per andare a divertirvi, ma per stare con la gente. Vivete la vita della comunità che vi è stata affidata. Questo è sempre stato il mio impegno».
«Un tempo la Fede era quasi innata – ci dice don Franco -, ora in tanti si sono allontanati. Nel mio cammino c’è il ricordo di Pio XI (Papa dal 1922 al 1939, ndr), che aveva chiara la missione della Chiesa, con uno sguardo anche al periodo in cui si viveva. C’erano i primi passi della pacificazione fra Stato e Chiesa, arrivata poi nel 1929. Io la coscienza storica l’ho imparata a scuola, erano anni difficili, era nata da poco l’Opera nazionale Balilla. Ma il regime ci teneva ad avere le spalle parate con la Santa Sede, così lasciava al mondo cattolico una libertà, diciamo… condizionata, per averla presente negli eventi della vita della Nazione e nella scuola. Si iniziò allora ad avere l’insegnamento della religione, con l’introduzione del sacerdote nelle classi».
Anche lei don Franco ha insegnato, in seminario e all’Iti Porciatti.
«Come no! È stata un’esperienza molto bella. Nelle scuole elementari c’era l’attesa del sacerdote da parte dei ragazzi. E anche da parte degli insegnanti, che così uscivano a fare una fumatina. Avevo capito quanto fosse importante per le giovani generazioni avere una presenza accattivante e interessante. Del resto don Bosco e i Salesiani in questo ci hanno insegnato moltissimo».
In tutti questi anni in Duomo, come sono cambiate le presenze? I giovani vengono sempre?
«Io sono partito da Marina di Grosseto, ma già nel ’53 ero vice parroco di don Turiddo Turi in cattedrale. Ci ho trovato un lavoro avviato, con gruppi giovanili importanti, che partivano dalle elementari, alle medie, alle superiori. C’era un piccolo oratorio dove ora sono le librerie Paoline. Ma all’inizio è stato faticoso, soprattutto nel rapporto con i più grandicelli. Ricordo ad esempio come, nei primi tempi, trovai difficoltà con l’avvocato Amerini, che poi è diventato un amico che mi ha aiutato a entrare in sintonia con tutti gli altri. Così abbiamo raggiunto anche ragazzi che già allora erano ai margini».
Don Franco: «Il mondo giovanile ora è distaccato»
Era più facile di adesso?
«Allora era più facile perché non c’erano altre attrazioni, chiamiamole così. Accanto alla scuola e la politica l’unico riferimento era la parrocchia. I ragazzi partecipavano alla catechesi, non si vergognavano della vita liturgica o di uscire con la tonaca in processione. Partecipavano anche ai funerali. E le famiglie avevano fiducia, perché sapevano di mandarli in luoghi sicuri. Ora il mondo giovanile è distaccato. Avvertiamo che dopo i sacramenti iniziali, che trovano il loro termine con Comunione e Cresima, parliamo quindi di adolescenti, ci spariscono».
Perché spariscono i giovani, don Franco?
«Perché in casa non c’è più la parte positiva. Ai nostri tempi i genitori non solo accompagnavano i figli alla dottrina, ma si fermavano anche loro. Non li accompagnavano alla messa, ma stavano alla messa con loro. E se non potevano c’erano i nonni. Questo ora è finito. Nella famiglie si vede come tradizione il cammino iniziale cristiano, come dei bolli obbligatori sul passaporto, ma non si partecipa al percorso. Insomma, manca l’esempio, manca far capire quanto questi sacramenti siano necessari alla vita, ora sono diventati solo passaggi burocratici. Certificati necessari per poi magari sposarsi in chiesa».
Ma la Chiesa poteva e può fare di più?
«Forse la Chiesa non ha sempre saputo offrire esperienze di vita accattivanti. A parte alcune associazioni, come tutto il mondo scout o l’Azione cattolica. Ma da parte nostra c’è stata sempre fatica, io l’ho vissuto anche in ambito cittadino. Eppure ci sono stati fantastici interpreti della missione, penso a padre Ugolino a San Francesco, o a padre Umberto Ottolini al Cottolengo. Qui in Duomo sono arrivato io. Abbiamo tentato di far incontrare gli adolescenti, in incontri familiari e anche ludici. Ricordo che il vescovo Galeazzi volle il carnevale in San Francesco, mettendo insieme gli scout e i giovani dell’Azione cattolica, da vivere insieme ai genitori».
«I giovani preti vivano fra la gente. Uscite! Accettate il dialogo»
Molti preti giovani si danno da fare in Maremma. Che consigli dà loro?
«Di andare in mezzo alla gente. Di vivere la propria comunità. Sia che ci sia una parrocchia da risollevare che una da far nascere. Serve una grande attenzione alla vita della gente. Andate! Uscite, andate dove c’è la vita: nella scuola, nella piazza, accettate il dialogo, anche se sfocia in espressioni poco gradevoli da incassare e alle quali ribattere non con violenza, ma con dialettica. Non abbiate paura del discredito degli adulti o della loro indifferenza e tantomeno del rifiuto dei ragazzi che spesso non sanno cosa vogliono e cosa pensano. In modo affabile potete conquistarli».
Lei ha sempre fatto così.
«Ora io passo per la strada ricevo il buongiorno da tutti. E lo riceverò ancora. Questo deve essere l’oggi della Chiesa. Vivere la comunità, non risparmiarsi mai la condivisione, la comprensione, il sostegno, l’incoraggiamento, una preghiera in silenzio».
«Non perdere la speranza, vivere il Giubileo»
Non perde la speranza don Franco.
«Questo è il mio quarto Giubileo, quello della speranza e del dialogo. L’altra sera sono andato in farmacia, per me e per la mia famiglia e, appena uscito, mi sono messo a parlare con alcuni anziani che erano a sedere in piazza. Ero col bastone, ma la forza di scambiare due parole non mi manca. Questa è la speranza. “Come state? Come va in famiglia?”. Le sofferenze in casa le ho anche io, ma non dobbiamo perdere la forza della condivisione con le persone. Bisogna essere aperti alla speranza, anche in un mondo come questo che non trova la Pace».
«A me piace pensare ancora ad un mondo di Pace. A questo serve il Giubileo, che viene dalla tradizione ebraica: ogni 50 anni, prevedeva un anno di riposo per la terra, la restituzione delle proprietà e la liberazione degli schiavi. Vorrei che il mondo avesse la forza di fermarsi e di riposarsi. Questo Giubileo ce lo chiede con forza. Del resto nel V secolo dopo Cristo ci fu San Benedetto a combattere contro il mondo barbarico. Oggi non è facile trovare un altro San Benedetto, perché c’è più violenza di allora».
Che tipo di violenza?
«La violenza di oggi è in un benessere che non tiene conto della maggioranza che questo benessere non lo può raggiungere. E che con i criteri che governano il mondo non lo potranno mai raggiungere. Così ci saranno sempre delle persone che godranno di più e molte di più che continueranno a soffrire. Eppure il patrimonio del Vangelo e della Chiesa ci indica la strada da percorrere».
Don Franco e i dieci vescovi a Grosseto
Arriva un vescovo molto giovane, don Bernardino. (Qui l’articolo)
«L’impressione è che sia un prete che sta molto fuori, che vive la comunità. Un uomo che saprà capire le necessità della gente. Spero di conoscerlo presto di persona».
Che si aspetta nel prossimo futuro?
«Sarà un bel 2025, per gli altri. Io ho avuto abbastanza. Anche se vorrei ancora dare qualcosa alla comunità. Però ringrazio Dio per avermi dato una vita così lunga, libera, indipendente. Sono ancora in grado di farmi una doccia, di pulirmi, di avere il gusto di farmi la barba e vestirmi a modo. Sento che c’è ancora qualcuno che mi accetta e che mi aspetta. E poi penso al lavoro fatto con il Comune per il nostro museo diocesano, per l’arrivo in città della collezione Luzzetti, per i primi passi della Settimana della bellezza. Di soddisfazioni ne ho avute tante, ora se le meritano gli altri».
Nella sua vita ci sono stati molti vescovi.
«Ne ho conosciuti dieci, a partire da Gustavo Matteoni e poi è diventato arcivescovo di Siena. E poi Paolo Galeazzi, che mi ha ordinato, che è stato vescovo dal 1932 al 1971, superando anche un ictus. Quindi Primo Gasbarri e poi il mio conterraneo Adelmo Tacconi. Poi arriva il cardinale Angelo Scola, che per me è stato importantissimo. Vivevo un momento molto bisognoso di rapporti, avevo le antenne aperte e con lui trovai la corrispondenza e la fiducia. Ero parroco della Cattedrale. E poi il vescovo Babini, che mutuò le aperture di Scola nel mondo grossetano. Arrivò la prima scuola cattolica, che pure non fu vista bene dalla società di allora».
La Chiesa e lo scontro con la realtà politica del dopoguerra
Come mai?
«Perché qui c’è sempre stata un’egemonia stringente della sinistra, dalla Liberazione fino al sindaco Antichi. Del resto l’economia era tutta basata sulle miniere, c’erano 10mila lavoratori, compreso mio padre che era un minatore (don Franco è di Boccheggiano, ndr). Insomma c’era un bacino di utenza che non consentiva altre presenze. Il padronato, rappresentato da Montecatini-Montedison era molto duro, c’era uno scontro continuo con la parte sindacale. Quindi il voto era sempre orientato. I vescovi ne hanno dovuto tenere conto».
Però in questo contesto nacquero le chiese a Ribolla e a Bagno di Gavorrano.
«Furono eventi importanti, io andai a fare il parroco proprio a Bagno, ed ebbi la soddisfazione di veder crescere la comunità in modo esponenziale, da 150 persone a oltre 3000. In quel periodo il padronato dava dei contributi anche alle nostre iniziative, fino alla fornitura di materiali di consumo, come la legna per il riscaldamento. Fui io a prendere contatto con la direzione per avere il sussidio, dopo la richiesta del vescovo Galeazzi. Ricordo che l’allora direttore delle miniere mi chiese di dividerlo fra la parrocchia del paese e quella di Bagno. Io risposi “relata refero”, ma aggiunsi: non capisco perché la Montecatini che con lo sviluppo della miniera ha dovuto chiamare tanti minatori ed ha moltiplicato produzione e guadagni, ora chieda alla Chiesa di dividere».
«E quando capitò la possibilità di trasferire un mio fratello, che aveva fatto domanda di essere riportato a Gavorrano, dissi al direttore: prima riporti a casa gli altri, lui può fare ancora un po’ avanti e indietro da Boccheggiano, ma a Bagno non si dica che il fratello del prete è raccomandato».
Torniamo ai vescovi.
«C’è stato Franco Agostinelli, che anche lui ha fatto fatica, poi il vescovo Rodolfo, che è diventato il mio confidente ed assistente, poi Roncari. Ora arriva questo vescovo giovane, ho tanta fiducia e, appunto, speranza».
Gli auguri di don Franco alla città
Faccia gli auguri alla città don Franco.
«Li faccio per il Natale, anche se in lieve ritardo. In fondo gli auguri sono come la schiaccia di Pasqua, che è buona sia prima che dopo Pasqua. E li faccio per il 2025, anche in tempi così difficili. Perché come abbiamo detto, sarà l’anno della speranza».
«Auguro ai miei confratelli che sono nel pieno possesso delle loro energie di spirito e di corpo di viverlo in piena sintonia con le loro comunità».
Don Franco, 98 anni di vita e 74 di sacerdozio
Alcuni tratti della biografia di don Franco Cencioni.
Don Franco, nato a Boccheggiano il 13 luglio del 1926 fu ordinato prete il 23 dicembre 1950 dal vescovo Paolo Galeazzi a Porto Santo Stefano. Quel giorno veniva riaperta al culto e consacrata la chiesa di Santo Stefano, distrutta dai bombardamenti della guerra. Galeazzi volle rendere ancor più solenne quella giornata inserendovi il rito di ordinazione di quel giovane seminarista che aveva scovato qualche anno prima a Boccheggiano, dove si era recato per una celebrazione.
Franco allora era rientrato a casa da Tortona, dove era andato a studiare da don Orione. «Furono anni formativi importantissimi – ricorda don Franco – quelle “ditate” sulla pelle che ti ritrovi anche a distanza di decenni».
Molti i campi di apostolato nei quali don Franco si è cimentato. A partire da quello parrocchiale.
Nel ’51 fu mandato parroco a Marina, dove si dedicò alla costruzione della chiesa e alla pastorale tra la gente, a Shangai e d’estate tra i ragazzi delle colonie. A Marina arrivarono i Carmelitani e don Franco rientrò a Grosseto, all’inizio insegnante in Seminario e cancelliere di Curia, nei fine settimana, in giro a celebrare messe fra la Trappola, la Canova, Castiglione della Pescaia e le Strillaie.
Nel ’53 Galeazzi lo nomina vice parroco di don Turiddo Turi in Duomo, ma nel ’55 un nuovo trasferimento: parroco a Giuncarico, tra le famiglie dei minatori. Poco più di un anno e mezzo e di nuovo con le valigie pronte: il vescovo lo invia parroco nella nascente parrocchia di Bagno di Gavorrano, dove resta 40 mesi.
Un periodo vissuto in una realtà composita, con famiglie operaie provenienti da varie parti d’Italia e quindi da aiutare ad inserirsi e a fare comunità, ma anche in una realtà politicamente complessa, dove la dialettica tra lui e i dirigenti comunisti non fu scevra da tensioni.
Nel ’61 per don Franco si apre un capitolo nuovo: Galeazzi lo nomina parroco del Duomo, un servizio che porterà avanti per 31 anni. Nel 1992, infatti, il vescovo Scola, nel riorganizzare la Diocesi, chiede a don Franco di assumere la carica di Proposto del Capitolo, passando il servizio di parroco a don Roberto Nelli. Scola gli affida anche la parrocchia di Principina Terra.
Don Franco e l’associazionismo
Da molti anni è assistente generale dell’Azione Cattolica diocesana, nella quale lui stesso si è formato fin da ragazzino, ma è stato anche assistente dei maestri cattolici, dell’Unitalsi, del Cif, per il quale si è speso moltissimo realizzando anche la casa del Noce, correttore della Misericordia.
Un’esperienza che ricorda sempre con grande affetto sono stati gli anni di insegnamento della religione presso l’Iti Porciatti di Grosseto.
Altrettanto significativo l’apporto alla Diocesi. Giovane prete è nominato cancelliere della Curia appena riaperta dopo i danni della guerra, mentre a fine anni ’90 il vescovo Babini lo incarica di mettere in piedi l’ufficio beni culturali ecclesiastici, istituito a livello nazionale dalla Cei, e di cui continua ad essere zelante direttore.
È un settore nel quale don Franco si butta con entusiasmo, dopo che – giovane canonico della cattedrale – lavorò con grande intensità per convincere il Capitolo ad allestire il museo della cattedrale, che poi diventerà il museo diocesano di arte sacra, e ad accettare la proposta del Comune di inserire quest’ultimo all’interno della medesima struttura del museo archeologico, dando vita a quello che oggi è il Maam.
Per molti anni è stato anche responsabile dell’archivio diocesano.
(Grazie per la biografia di don Franco a Giacomo D’Onofrio, da Toscanaoggi.it).
www.maremmaoggi.net è stato pubblicato il 2025-01-01 08:19:05 da Guido Fiorini
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