Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso del Ministero dell’Interno e della Prefettura di Foggia, contro Aleasya Costruzioni Srl, che si era aggiudicata i lavori di realizzazione del Centro aperto polivalente per minori in via D’Addedda e della casa rifugio (qui la vicenda), per la riforma della sentenza del Tar Puglia.
Con il provvedimento del 9 novembre 2023, l’ex prefetto Maurizio Valiante, aveva interdetto per ragioni di prevenzione antimafia la società operante nel settore impiantistico ed edilizio, e respinto l’istanza di iscrizione della stessa nella white list presentata dal suo amministratore unico in data 26 febbraio 2020 per partecipare alle gare pubbliche che eventualmente prevedano, tra i lavori da eseguire, anche il ‘movimento terra’. La Prefettura aveva escluso la sussistenza dei presupposti per consentire l’accesso della società al regime della prevenzione collaborativa, atteso il “pericolo immanente e non occasionale di agevolazione” e l’”esclusione di una reale possibilità di stabile riduzione in bonis dell’impresa.
Il Prefetto di Foggia ha ottemperato al precetto cautelare emanando il provvedimento interdittivo confermativo del 5 marzo 2024.
Tra gli elementi istruttori originali di cui si fa menzione nel provvedimento interdittivo, ad integrazione del quadro indiziario che sorregge l’interdittiva originaria anche per quanto concerne il carattere stabile e non occasionale del pericolo di condizionamento, merita segnalare i seguenti:contiguità alla consorteria mafiosa foggiana di alcuni dipendenti della società ricorrente nel periodo in cui ne era amministratore xxxxx, i quali sono successivamente transitati alle dipendenze di altra società che intratteneva rapporti privilegiati con il Comune di Foggia. Come xxxxx, dalle indagini relative a un’operazione antimafia, è risultato essere il depositario delle “liste delle estorsioni”, strumento utilizzato dalla “Quarta Mafia” per individuare le imprese sottoposte all’estorsione ambientale e contabilizzare i proventi delle estorsioni. Reiterati controlli di xxxxx in compagnia di esponenti della mafia foggiana. Condivisione da parte della società appellata e di un’altra società oggetto di interdittiva antimafia, di dipendenti (come è dimostrato dal fatto che uno stesso soggetto ha percepito redditi da entrambe le società nella stessa annualità) e loro operatività nello stesso settore imprenditoriale.
Da tali elementi, complessivamente valutati, il Prefetto di Foggia ha tratto il pericolo per l’ordine pubblico economico rappresentato dalla società interdetta, in ragione della perturbazione della libera concorrenza tra le imprese derivante dall’effetto intimidatorio prodotto da un operatore economico che appaia, come la suddetta società, riconducibile ad un contesto familiare di matrice mafiosa, in un ambito geografico ed imprenditoriale caratterizzato dalla presenza pervasiva della mafia e dalla sistematicità dei suoi metodi estorsivi.
Il Tar per la Puglia, adito dalla società interdetta con domanda di annullamento del suddetto provvedimento interdittivo, con l’ordinanza dell’11 gennaio 2024 aveva accolto la relativa istanza cautelare ai fini del riesame del provvedimento, sospendendo gli effetti del provvedimento confermativo con la seguente motivazione: “Considerato…che la situazione di fatto emergente dagli atti di causa richiede una rinnovata valutazione alla luce dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, con particolare riferimento ai plurimi rilievi mossi in ricorso avverso il provvedimento interdittivo impugnato ed alla complessiva materialità dei fatti formalmente addebitati alla società ricorrente”. Da qui la domanda di riforma proposta, con l’appello in esame, dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura UTG di Foggia, al cui accoglimento si oppone, anche eccependone l’inammissibilità (perché a suo avviso caratterizzato dalla mera riproposizione delle argomentazioni difensive sviluppate in primo grado, senza recare specifiche censure nei confronti degli snodi motivazionali della sentenza impugnata) l’originaria ricorrente.
Nella sentenza della terza sezione del Consiglio di Stato del 18 aprile, si legge che in primo luogo deve osservarsi che la struttura familiare dell’impresa interessata non è sufficiente ai fini della configurazione della “regia familiare” della stessa, nel significato che tale locuzione assume ai fini applicativi della legislazione antimafia, laddove non si dimostri che quella struttura replichi il modello organizzativo della cosca mafiosa ovvero costituisca la rete di trasmissione dell’influenza mafiosa che uno dei suoi componenti, più vicino agli interessi criminali, è in grado di esercitare sugli altri che ne fanno parte.Per questo ed altri motivi cristallizzati nelle 22 pagine del provvedimento a firma del presidente Rosanna De Nictolis, il Consiglio di Stato respinge l’appello di Prefettura e Ministero dell’Interno
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