FOGGIA – Con la decisione della Corte dei conti notificata nelle scorse ore ad alcuni ex dipendenti del Comune di Foggia si chiude dopo 10 anni l’inchiesta sull’assenteismo nel capoluogo. La Corte ha infatti condannato gli ex dipendenti del servizio attività economiche e della protezione civile, al risarcimento delle somme corrispondenti alle ore non lavorate, oltre interessi e rivalutazioni. I risarcimenti vanno da un minimo di 600 ad un massimo di 4500 euro ma la maggior parte degli ex dipendenti comunali, tutti licenziati in tronco (alcuni però si dimisero) per via della legge Brunetta, avevano già risarcito spontaneamente il danno. Nell’inchiesta furono coinvolti Raffaele Abatescianni, Carmen Celentano, Giuseppe Ciociola, Filippo Di Franco, Carmela D’Onoifrio, Alessandro Grosso, Giancarlo Mitoli, Angelo Moscariello, Luigia Rita Nigri, Nicola Orlando, Matteo Palmieri, Raffaele Palumbo, Maria Antonietta Ricci, Giovanni Signoriello e Antonio Virgilio.
E’ la seconda parte dell’inchiesta avviata dai Carabinieri nel 2015 dopo una denuncia di un consigliere comunale dell’allora maggioranza di centrodestra, perché tutte le accuse – sul piano penale – sono decadute per prescrizione lo scorso 9 gennaio 2024 quando il magistrato che ha ereditato il procedimento in cui si sono susseguiti/avvicendati una mezza dozzina di giudici, ha valutato i termini di prescrizione perché il reato di truffa si estingue nell’arco di 7 anni e 6 mesi.
I fatti sono datati 24 febbraio/24 aprile 2015. L’inchiesta sfociò nel blitz dei carabinieri del 9 maggio 2016 con l’esecuzione di 20 ordinanze del gip: 13 arresti domiciliari revocati dopo pochi giorni, e 7 sospensioni dal lavoro per 12 mesi. Il rinvio a giudizio dei 25 imputati avvenne in due fasi: i primi 23 l’8 marzo 2017, altri 2 nei mesi successivi; i procedimenti furono riuniti in un unico processo davanti al giudice monocratico, iniziato il 6 aprile 2017. Imputati l’allora dirigente del servizio attività economiche; impiegati dello stesso ufficio e del servizio protezione civile e dell’ex Uma; la difesa ha sempre replicato che le assenze erano legittime e giustificate.
Per dare un’idea delle lungaggini del processo, per arrivare all’interrogatorio del primo teste d’accusa si dovette attendere l’udienza del 30 novembre 2017, 17 mesi dopo l’avvio del procedimento; l’interrogatorio del primo carabiniere citato dal pm si protrasse per quasi due anni, sino al 9 settembre 2019; il giudice davanti al quale iniziarono le udienze cambiò dopo poche udienze, avvicendato da un collega; dopo 17 mesi, il 12 settembre 2018, subentrò un terzo magistrato; e in questi anni sono una mezza dozzina i giudici togati che si sono alternati. In sei anni di processo, contrassegnati da rinvii per motivi vari (legittimi impedimenti, cambio giudici, astensione dei legali, impegni vari, sospensione processi causa Covid nel periodo del lockdown tra marzo e maggio 2020 e proseguita anche successivamente) sono stati interrogati un paio di testimoni d’accusa: uno dei carabinieri che condusse le indagini e l’ex consigliere comunale Giuseppe Mainiero la cui denuncia all’Arma a gennaio 2015 diede l’input alle indagini.
I carabinieri su ordine della magistratura nascosero tre microtelecamere: 1 all’esterno della sede di viale Sant’Alfonso, 2 all’interno vicino al marcatempo dove l’impiegato passa il proprio badge al momento di entrare e uscire dall’ufficio. Furono attivate il 24 febbraio 2015 e spente il successivo 24 aprile. Nella sede distaccata comunale accanto ai mercati generali di porta Manfredonia c’erano il servizio protezione civile, quello delle attività economiche, l’ufficio ex Uma. Nei due mesi di monitoraggio dei dipendenti presunti assenteisti, pm e investigatori conteggiarono quasi 1200 ore di assenze ingiustificate, con un danno patrimoniale ai danni del Comune (costituitosi parte civile) di circa 35mila euro. Incrociando quanto emergeva da due mesi di filmati con gli orari d’ingresso e uscita dei dipendenti, l’accusa ipotizza che ci fosse chi arrivava in ufficio in ritardo, e/o andava via prima della fine dell’orario di lavoro, potendo comunque contare sulla copertura/complicità di colleghi che timbravano il badge al loro posto in un sistema di mutuo favore. Da qui l’accusa di truffa con contestazione di ogni singolo episodio; il capo d’imputazione formulato dal pm era di 103 pagine. La maggior parte delle contestazioni riguarda l’“aver attestato falsamente la propria presenza in ufficio allontanandosi dal posto di lavoro, senza rilevare mediante la timbratura della scheda magnetica il periodo d’assenza; facendo timbrare il cartellino marcatempo ai colleghi, inducendo in tal modo in errore l’amministrazione, e procurandosi un ingiusto profitto corrispondente alle ore lavorative illegittimamente retribuite, e cagionando un disservizio per le assenze dall’ufficio”.
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