Il Conte di Arcola, Franco di Sarzana, Baciccia di Camogli. Storie di umanità partigiana

Il Conte di Arcola, Franco di Sarzana, Baciccia di Camogli. Storie di umanità partigiana



L’eccidio di Bosco di Corniglio – Il 17 ottobre 1944, a Bosco di Corniglio, nell’Appennino Parmense, c’erano anche due partigiani della Val di Magra: il conte Giuseppe Picedi Benettini, erede di un nobile casato arcolano-sarzanese, studente universitario di Ingegneria, e Franco Franchini, che si era laureato in Filosofia pochi giorni dopo il 25 luglio 1943, giorno della caduta del fascismo. Entrambi erano saliti ai monti nei primi mesi del 1944, e si erano ritrovati a collaborare al Comando Unico parmense, sorto dopo la sconfitta delle zone libere del Taro e del Ceno e i duri rastrellamenti del luglio e dell’agosto 1944.
Il Comando Unico si era spostato dalla Val Taro a Bosco di Corniglio ai primi di ottobre. Le Brigate partigiane – erano otto: quattro Garibaldi vicine al PCI, tre “autonome” vicine in qualche modo alla DC, una di Giustizia e Libertà legata al Partito d’Azione – si avvicinarono alla città di Parma allo scopo di favorire l’avanzata anglo-americana, che era stata data per imminente e che avvenne invece solamente nella primavera dell’anno successivo.
E’ difficile connotare politicamente Picedi Benettini: forse il termine “monarchico democratico” è quello che più gli si attaglia, se non altro per l’educazione ricevuta. Partigiano della IIa Brigata Julia, “autonoma”, partecipò a numerose azioni nella Val Taro e fu Comandante di un suo Distaccamento, prima di essere chiamato a far parte del Comando Unico come Comandante di Brigata, ufficiale di collegamento.
Franchini, già allora vicino alla DC, collaboratore di Achille Pellizzari “Poe”, vicecommissario del Comando, fu da lui designato Ispettore di collegamento. Pellizzari, docente di Letteratura all’Università di Genova, era stato deputato del Partito Popolare dal 1921 al 1924, e durante il ventennio era sempre stato antifascista.
Il 16 ottobre sera Giuseppe Picedi Benettini – nome di battaglia “Penola” – rientrò, fradicio per la pioggia, da una missione in Valmozzola. Franco Franchini – nome di battaglia “Franco” – arrivò poco dopo. Aveva passato la Cisa sotto una tormenta di pioggia. Si ritrovarono tutti a cena: c’erano il Comandante Giacomo di Crollalanza “Pablo“, giovane ufficiale siciliano, studente anch’egli di Ingegneria, che nel maggio 1944 era salito ai monti ed era diventato Comandante di una Brigata garibaldina, il Commissario politico Primo Savani “Mauri”, comunista, ed altri. Una quindicina di persone in tutto.
Il 14 ottobre erano venuti al Comando, per una riunione per programmare le azioni militari in pianura e in città, i responsabili del Comando di Piazza di Parma e i componenti del CLN. Risolte alcune questioni controverse e predisposti i piani, i partecipanti erano tornati in città la mattina del 16. Solo il Comandante di Piazza Gino Menconi “Renzi”, comunista di Avenza che per molti anni era stato in carcere e al confino, era rimasto per perfezionare alcune intese.
Il 17 mattina arrivarono i nazisti.
Leggiamo la testimonianza di Franchini, uno dei sopravvissuti:
“Nella colonna tedesca c’era un traditore, Mario lo Slavo. Fatto prigioniero in un’azione di guerriglia, costui aveva mercanteggiato la propria libertà con la promessa di condurre i tedeschi a sorprendere il Comando partigiano, nel cuore della notte, in Bosco. Si deve ai mulattieri, presi come ostaggi per guidare con i loro muli le forze tedesche, se la sorpresa non raggiunse il suo completo risultato. I mulattieri, consapevoli della tragedia che si sarebbe verificata giungendo a Bosco a notte inoltrata, ritardarono la marcia allungando il percorso in modo da raggiungere il paese soltanto al mattino del 17 ottobre. […]
La resistenza dei partigiani fu più che strenua. Fu veramente eroica. Il Comandante Pablo cadde, fulminato dalla mitraglia, colpito in più parti del corpo; egli aveva ingannato i tedeschi sul numero dei partigiani impegnati nel combattimento, correndo da una finestra all’altra sventagliando colpi col suo mitra. Cadde con l’arma in pugno, sul tappeto di erba all’inizio del bosco di castagni, dietro l’albergo Gherardini [attiguo alla sede del Comando]. Menconi (Renzi), Comandante della Piazza di Parma, cadde invece sulla porta del Comando, crivellato di colpi. Egli non morì all’istante: poco dopo, ultimata la strage, i tedeschi appiccarono il fuoco al letto sul quale giaceva il suo corpo agonizzante. Giuseppe Picedi Benettini (Penola) Comandante di Brigata, addetto ai collegamenti, morì colpito alla fronte, là dove agli eroi viene posata la corona di alloro, mentre disperatamente sparava contro il nemico. […]
Tre autentici eroi. Ciascuno con pensiero politico diverso, ma tutti con il sentimento dello stesso dovere […]. Altri tre partigiani […] immolarono alla Patria la loro giovane vita: Enzo Gandolfi, Domenico Gervasi, Settimo Manenti. Dei pochi uomini che componevano il Comando in Bosco, in tutto 14 persone, quella mattina sei lasciarono la vita in combattimento; gli altri, per vero miracolo, scamparono alla morte”.
I sopravvissuti saltarono dalle finestre e fuggirono nei boschi, grazie a chi, sparando, li aveva protetti, ritardando l’azione tedesca.
Primo Savani “Mauri”era vicino a Gino Menconi, ferito da una raffica, e ricevette il suo ordine: “Salvati!”. L’ultima conferma di una vita contrassegnata da una vivissima umanità.
Gli altri tre partigiani caduti erano addetti alla guardia: furono uccisi alla periferia di Bosco.
Il Vicecomandante Giacomo Ferrari e il Comandante della Ia Brigata Julia Primo Brindani “Libero” raggiunsero i primi distaccamenti partigiani della 12a Garibaldi e di Giustizia e Libertà, organizzarono il contrattacco e inseguirono i tedeschi in fuga, che erano però coperti dalla nebbia.
I sopravvissuti del Comando raggiunsero il giorno dopo il luogo dell’eccidio. Ecco la testimonianza di “Mauri”:
“I cadaveri di Renzi e Penola erano irriconoscibili, così deformati e consunti dalle fiamme. Coloro che si erano salvati, raccontavano avventure raccapriccianti. […]
Le salme furono allineate in una stanza al pianterreno dell’albergo. Vennero accesi dei ceri. Quivi i superstiti sostarono in religioso raccoglimento. Non si fecero discorsi. Pellizzari disse: ‘Sono morti per la nostra idea’, e Mauri: ‘Vi vendicheremo’.
[…] Ci riunimmo nella chiesetta di Bosco. Tutte le case avevano le porte chiuse e non era il caso di costringere quella povera gente, ancora in preda alla disperazione, a darci ospitalità.
Occorreva procedere al riordinamento del Comando, alla sostituzione di Pablo, alla convocazione dei comandi di brigata, alla continuazione dell’attività bellica. Tutto ciò accadde nell’atmosfera religiosa della chiesa, come si trattasse di un rito.
L’agguato tedesco, pur nel dolore per le gravi perdite, anziché fiaccare, aveva resa ancora più tesa la nostra volontà di lotta per vincere ad ogni costo la feroce tracotanza nemica.
All’ing. Ferrari, che assunse da quel momento il nome di ‘Arta’ venne interinalmente conferito il comando militare. I comandanti di brigata furono convocati a Belforte.”
Savani ricorda la marcia verso Belforte:
“Nell’attraversare la strada della Cisa, percorsa dai tedeschi (la notte era buia), per non smarrirsi, e per rinsaldare la nostra unità nella vita e nella morte, con ancora davanti agli occhi le salme sfigurate dei nostri compagni arsi vivi, facemmo catena, tenendoci per mano”.
Il 23 ottobre il Comando Unico risultava così formato: “Arta” Comandante, Achille Pellizzari “Poe” Commissario politico, Leonardo Tarantini “Nardo” Capo di Stato Maggiore. La nuova sede fu inizialmente in Val Noveglia.
Il 21 ottobre un pubblico processo innanzi al Tribunale militare partigiano aveva condannato a morte “Mario lo Slavo”.
Dopo la Liberazione “Poe” dettò per i Caduti l’epigrafe impressa sul marmo murato nella facciata dell’albergo Ghirardini.
Franchini, a differenza degli altri sopravvissuti, non fu libero subito. Trovò nell’albergo una camicia nera e, così vestito, riuscì a confondersi con gli ostaggi civili. Fu fatto prigioniero ma riuscì ad attuare la fuga eludendo la sorveglianza dei suoi carcerieri sul passo del Cirone, correndo via tra un inferno di fuoco. Il merito fu di una donna, la partigiana Argia Tedeschi “Bruna”, anch’essa arrestata, che rinunciò alla fuga per rendere possibile almeno quella di “Franco”.
Pensiamo solamente ai tre Caduti del Comando: due giovani studenti – un ufficiale siciliano e l’erede di una famiglia nobile spezzina – e un comunista avenzino “bolscevico”. La tragedia del 17 ottobre 1944 ci fa capire come, al di là dei contrasti e delle rivalità politiche tra i partiti del CLN, che pure furono molto forti, e al di là delle difficoltà dell’incontro tra generazioni diverse – i giovani partigiani combattevano la loro lotta, diversa da quella degli antifascisti del ventennio – l’unità che si realizzò non fu certamente fittizia. Era per tanti aspetti un’unità reale, di azione e politica, e di valori morali. La “volontà di pace” e l’”amore per la libertà della nostra Patria” – ha scritto Franchini – unirono Pablo, Penola e Renzi, “fraternamente abbracciati sotto la terra nuda”. Questa è la moralità della Resistenza: l’umanità al posto della disumanità, il riscatto dell’umanità dalla vergogna e dall’orrore del nazifascismo, della Shoah, della violenza, della guerra.

La lapide ai Caduti dell’eccidio di Bosco di Corniglio del 17 ottobre 1944, posata nell’edificio già sede del Comando Unico parmense (foto Giorgio Pagano)

 

Vita e morte di un intendente, sempre allegro, pronto a ogni fatica 
Il 17 ottobre ho ricordato Gino Menconi nella sua Avenza. Il 20 ottobre ero a Bosco di Corniglio, a rappresentare la Resistenza spezzina. Tanti furono gli spezzini nella Resistenza parmense, come ho ricordato in questa rubrica raccontando l’assalto al treno a Valmozzola il 13 marzo 1944 e la partecipazione del Distaccamento Muccini alla liberazione di Bardi e della Val Ceno nel giugno 1944. Basti pensare al monte Cirone: è lo stesso monte da cui nascono i fiumi delle due zone, il Parma e il Magra. I sentieri di montagna ci unirono più che mai.
Ma tanti furono anche i partigiani parmensi e di altre zone che parteciparono alla Resistenza spezzina. Lunedì scorso sono stato a Zeri, per la posa della targa a Prospero Castelletto “Baciccia”, fortemente voluta dalla Sezione ANPI di Zeri.
Castelletto era di Camogli, di una famiglia che fabbricava a mano reti da pesca. Fu inviato dal Partito d’Azione, nel gennaio 1944, a Torpiana di Zignago in Val di Vara e poi a Valtermine nello Zerasco, nel gruppo che darà vita alla Colonna Giustizia e Libertà. Svolse una molteplicità di compiti, con un coraggio e un dinamismo eccezionali. Fece un po’ di tutto ma fu soprattutto intendente: una funzione preziosissima, quella di procurare tutto ciò che serviva alla sopravvivenza dei partigiani ai monti, in primis il cibo. Fu lui a portare il maggiore napoletano Vincenzo Stimolo, “Corvo”, sul monte Picchiara, base adatta ai lanci degli Alleati. La Val di Vara e la Lunigiana non erano il Parmense: erano zone poverissime di alimenti. Anche per questo la Resistenza nelle nostre valli fu eroica.
Certamente gli abusi verso i contadini non mancarono. Il povero “Baciccia” era veramente messo in croce: tutti si rivolgevano a lui per avere olio, grassi, carni, grano; e il Comando della Colonna e più spesso quello della Divisione Liguria lo criticavano per violazione delle disposizioni che regolavano gli approvvigionamenti. Era una lotta continua. “Baciccia” correva e accorreva ovunque. A volte era sconsolato, ma poi si riprendeva sempre. Fino al rastrellamento più terribile, quello del 20 gennaio 1945.
Il 21 gennaio Castelletto, preso prigioniero, riuscì a fuggire come aveva fatto in altre occasioni, ma cadde sul ghiaccio fratturandosi una gamba, nella zona sopra la cascata di Colombara. Fu ucciso da una raffica dei tedeschi, richiamati dal suo urlo di dolore.
Così lo storico Giulivo Ricci descrisse “Baciccia”:
“Eccezionale e singolare personaggio, camoglino dallo stupefacente coraggio, ribelle e antifascista da sempre, staffetta, informatore, guida, combattente, partigiano, intendente di brigata, camminatore infaticabile tra Genova e il Picchiara, sempre allegro, pronto a ogni fatica”.
Le storie della Resistenza sono belle anche perché sono tutte diverse tra loro. Sono vecchie storie? Sì, ma vale la pena raccontarle ancora. Sono tutte diverse ma anche tutte simili: sono le storie di chi risollevò la Patria dal fango in cui era stata trascinata dal fascismo e le ridiede dignità. Raccontarle significa ricordarle, ed essere sempre riconoscenti.

Il Conte di Arcola, Franco di Sarzana, Baciccia di Camogli. Storie di umanità partigiana

La targa a Prospero Castelletto “Baciccia”, posta a Colombara di Zeri, vicino al luogo in cui fu ucciso il 21 gennaio 1945 (foto Giorgio Pagano)

Post scriptum
Chi volesse approfondire le vicende dell’eccidio di Bosco di Corniglio e le vite dei Caduti può leggere l’articolo che ho pubblicato su “Patria Indipendente”:

Ottobre 1944. L’eccidio di Bosco di Corniglio e quella resistenza eroica dei partigiani del Comando Unico parmense


Sul ruolo degli spezzini nella Resistenza parmense rimando all’articolo su “Patria Indipendente”:

L’assalto al treno in Valmozzola, pietra miliare della Resistenza


e all’articolo di questa rubrica:

Giugno-luglio 1944. I partigiani spezzini e le libere Repubbliche del Ceno e del Taro


Sulla Colonna Giustizia e Libertà rimando a questo intervento:

La Colonna Giustizia e Libertà


Per altre informazioni è possibile consultare il Dizionario online della Resistenza spezzina e lunigianese:

Dizionario online della Resistenza Spezzina e Lunigianese

[email protected]


Leggi tutto l’articolo Il Conte di Arcola, Franco di Sarzana, Baciccia di Camogli. Storie di umanità partigiana
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