Il grande scrittore mitteleuropeo Stefan Zweig (1881-1942) – nel suo libro “Momenti fatali. Quattordici miniature importanti” (ed. it. Adelphi), uscito nel 1927 e riedito nella sua forma definitiva nel 1943 – ha dimostrato come, all’interno del divenire storico, ci siano dei momenti culminanti e irripetibili, fatali appunto, che orientano il cammino della Storia in modo decisivo.
Nell’ambito della Storia contemporanea, uno di questi momenti è il primo anno di governo di Winston Churchill, nel Regno Unito, tra il 1940 e il ’41. Zweig morì nel ’42, dunque ebbe modo di assistere all’azione del governo di Churchill, eppure questo episodio della storia inglese, nel suo libro, non c’è.
Ma è possibile che, avendo visto Churchill in azione, nel momento in cui la Gran Bretagna, da sola, resistette alla Germania nazista, abbia considerato quell’episodio culminante della Seconda guerra mondiale, come da includere, almeno idealmente, tra i suoi momenti fatali.
Il fantasma del crollo
Oltre alle monografie importanti e alle opere dello stesso Churchill, il fatale e decisivo anno 1940-41 è stato trattato, negli ultimi tempi, da un libro e da un film, con grande efficacia in un caso come nell’altro. Si tratta del libro “Splendore e viltà” (2020, ed. it. Neri Pozza) di Erik Larson e del film “L’ora più buia” (2017) di Joe Wright, con Gary Oldman nel ruolo del leggendario Primo ministro britannico.
Il libro di Larson ha una caratteristica e una peculiarità importante (oltre alla sua capacità di catturare il grande pubblico): è il libro di uno scrittore, di un narratore che utilizza, però, soltanto materiale storico e documentario.
La sua magia sta tutta nella sua tecnica narrativa, nel suo saper intrecciare e montare storie ed episodi. Ma il materiale, in sintonia con il lavoro dello storico di professione, è sempre di archivio, le fonti sono vagliate e verificate ogni volta.
Larson ha dichiarato come il micidiale primo anno di governo di Churchill, abbia richiamato alla sua memoria sia l’11 settembre 2001, il crollo delle Torri gemelle e gli altri micidiali attentati subiti dagli Stati Uniti d’America, sia la pandemia da Covid in anni più recenti.
Ma si potrebbero nominare anche la guerra russo-ucraina o il conflitto israelo-palestinese. Ogni volta che l’umanità soggiace a una prova durissima, ci viene in mente Churchill alla guida della nazione inglese. Perché resistere all’orrore si può, si deve.
Il grande trascinatore
In “Splendore e viltà” e nel film “L’ora più buia”, Erik Larson e Joe Wright tratteggiano un Churchill gioviale e bonario che comincia le sue giornate con un buon sigaro, una porzione di whisky e una coppa di champagne; che cerca il gatto sotto al letto. Che strapazza Elizabeth Layton, la sua principale collaboratrice; che si dimostra marito affettuoso verso la sua Clementine.
Non solo, ma che ha doti di grande politico raffinato che lavora di sponda con i colleghi di partito, con il Re Giorgio VI (padre di Elisabetta II), con il governo francese, con Franklin Delano Roosevelt, allora Presidente degli Stati Uniti d’America.
Tuttavia, ciò che continua a destare meraviglia, anche nel senso filosofico della cosa, è che quest’uomo paffutello e rotondetto – dotato di cultura e innamorato della bella vita, che conosce bene il suo mestiere, la politica – riesca a dimostrare nel momento fatale, per dirla ancora con Zweig, una forza di carattere e una capacità di resistenza straordinarie e impressionanti.
All’inizio è completamente solo. Tutti gli sono contro: il capo del suo Partito, Neville Chamberlain; i francesi; gli Stati Uniti d’America che non vogliono entrare in guerra, né partecipare allo sforzo bellico; il Re Giorgio VI. Nessuno crede che i nazisti possano essere fermati. Ma la retorica di Winston si fa sempre più viva, trascinante, essenziale. L’idea che, un domani, la svastica possa sventolare su Buckingham Palace, dà un brivido nella schiena a tutti.
Così Churchill mette in moto quella macchina che porta anglo-americani e sovietici alla vittoria finale sui nazisti nel 1945. Alla fine del film di Joe Wright, compare questa frase di Churchill: “il successo non è definitivo, il fallimento non è fatale, è la capacità di andare avanti che conta”.
Messa a fuoco
Ci si potrebbe chiedere perché alla Seconda guerra mondiale venga attribuita tanta importanza. Non è un quesito cui sia impossibile rispondere. Nella Prima e nella Seconda guerra mondiale avviene qualcosa, che non era mai successo prima. E non solo per il numero dei morti – intorno a 8,5 milioni per il Primo conflitto mondiale; circa 50 milioni per il Secondo conflitto mondiale. Nella Seconda guerra mondiale, avvengono sia la Shoah, che lo sgancio delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
La Storia umana sembrava davvero vicina alla sua conclusione. Karl Kraus scrisse “Gli ultimi giorni dell’umanità” (1922, ed. it. Adelphi), grande dramma satirico sul Primo conflitto mondiale. Ernst Jünger dette alla luce saggi come “La mobilitazione totale” (1930, ed. it. Adelphi) o “L’operaio” (1932, ed. it Guanda). Sono i primi, grandi tentativi, di comprendere la nuova situazione.
Quella in cui guerra e industria hanno stretto le loro nozze fatali. In questa situazione ci troviamo tutt’ora, naturalmente. Un decennio dopo, furono Heidegger e Adorno, pur nelle loro diversità filosofiche profonde, a fissare la lente dell’analisi filosofica e storica sulle conseguenze della Seconda guerra mondiale.
Non a caso, nella prima parte di “Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa” (1951, ed. it. Einaudi), Adorno fece questa impressionante battuta: “Karl Kraus fece bene a intitolare il suo dramma Gli ultimi giorni dell’umanità. Ciò che accade oggi dovrebbe intitolarsi Dopo la fine del mondo” (p. 54, aforisma 33).
Tra immagini e parole
Attraverso un’opera letteraria e un film, è stato dunque possibile mettere a fuoco un personaggio di decisivo importanza storica quale fu Winston Churchill. Letteratura e cinema sono, molto spesso, degli ottimi strumenti per capire e godere della Storia. Si pensi ai romanzi storici di Robert Graves o alle “Memorie di Adriano” (1951, ed. it. Einaudi) di Marguerite Yourcenar.
A film come “Un uomo per tutte le stagioni” (1966) di F. Zinnemann (dedicato a Thomas More), a “Giordano Bruno” (1973) di G. Montaldo o a “Alexander” (2004) di O. Stone. Appare ovvio che, da cinema e letteratura, non ci si aspetta ciò che può darci un’opera di storia, in termini di esattezza filologica ed esaustività della trattazione. Ma, tuttavia, da essi ci può venire quello spunto, che serve – come disse Walter Benjamin nella VII delle sue tesi “Sul concetto di storia” (ed. it. Einaudi) – a “spazzolare la storia contropelo”.
www.romait.it è stato pubblicato il 2024-09-27 18:51:31 da Daniele Lorusso
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