La fine fatta dai congiurati che uccisero Pierluigi Farnese



Siamo voluti entrare in un dettaglio di cronaca storica particolare, avvenuto qui a Piacenza e che fece molto “rumore”, non solo in Italia, ma in tutta Europa. Parliamo della congiura definita “Plac” dal cognome degli autori principali: i nobili piacentini Pallavicino, Landi, Anguissola e Confalonieri, che uccisero il duca di Parma e Piacenza Pierluigi Farnese, figlio di papa Paolo III.

Il Palazzo Farnese che vediamo oggi, ancora non era stato costruito, ed al suo posto era l’altra parte della medievale Cittadella Viscontea affiancata a quella ancora esistente. Qui avvenne l’assassinio.

Il 10 settembre 1547, data del fatidico delitto, i quattro congiurati erano in combutta con il Duca di Mantova e ancor meglio col benestare di Carlo V (“l’Imperatore dei due Mondi”, impero sul quale mai tramontava il sole).

La domanda: ma quando poi le cose si assestarono qui a Piacenza, che reazione ebbe il Santo Padre papa Paolo III nei confronti degli omicidi di suo figlio?  Ed è quello che vogliamo dettagliare, cioè “la vendetta farnesiana” che non tardò ad arrivare, anche se fu abbastanza lunga e travagliata come vedremo.

Infatti il papa Paolo III disse, ed è agli atti, che non avrebbe avuto pace fino a che non avesse avuto piena vendetta del fatto: li voleva tutti morti. Un anno dopo, in pieno luglio, a Rottofreno nell’osteria lungo la strada, vennero arrestati bel 6 sicari papali: dovevano uccidere a Calendasco Giovan Luigi Confalonieri, uno dei congiurati, e confessarono d’esser stati pagati per quel “lavoro”.

Ma il Confalonieri la scampò per ben 39 anni, fino a quando nel 1586 dovette andarsene da Calendasco, per colpa della conclusa confisca farnesiana, ed andò a vivere a Milano, accolto con grandi onori e carico dei soldi della vendita dei beni piacentini.

Invece Girolamo Pallavicini il cospiratore detto “lo zoppo di Scipione Castello” nel 1549 fu ucciso nella “Rochetta de Corte Maxore (Cortemaggiore)” per motivi “de donzelle, giocho e gelosia”.

Diversa la sorte del terzo “pezzo grosso” della congiura, Agostino Landi, che morì di gotta nel suo letto a Piacenza e fu l’unico a pentirsi dell’omicidio in modo pubblico. La casata dei Landi negli anni subì purtroppo angherie, perse il castello di Bardi ed il palazzo Landi in città, quello che oggi è sede del Tribunale.

L’ultimo dei congiurati, Giovanni Anguissola, ebbe una vita travagliata, infatti subì più di un attentato da parte di sicari, e sopravvisse addirittura ad una archibugiata. Nonostante questo, l’Anguissola mai si pentì ed in un suo scritto affermò di aver uccido il duca Pierluigi Farnese “per interesse della patria mia, com’è noto a Dio…”, insomma un “idealista” fino alla fine, almeno così appare.

Il Papa li citò a giudizio a Roma, ma i congiurati, tolto il Pallavicino ormai come abbiamo detto, ucciso a Cortemaggiore, non vi andarono mai e si appellarono a Ferrante Gonzaga. Ed anzi in una lettera, scritta in rigoroso latino, rimarcavano che “divino ac humano jure tirannum occidere” era cioè diritto divino e umano uccidere un tiranno.

Questo è il racconto, in forma breve, di come se la passarono dopo l’omicidio politico, i principali fautori di queste famiglie nobili piacentine. Circolava al tempo infatti un proverbio, divenuto popolare: “con la Franza o con la Spagna, purché se magna”.


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www.ilpiacenza.it è stato pubblicato il 2024-10-28 06:00:00 da


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