ALBA ADRIATICA. Sono passati 15 anni, ma è ancora oggi. Perché non si smette mai di stare dentro una tragedia. E se il dolore resta materia delicata, l’esercizio della memoria è un dovere. Anita D’Orazio lo sa bene da quella sera del 10 novembre 2009 quando il figlio Emanuele Fadani morì preso a pugni da tre giovani rom in una strada di Alba Adriatica. Faceva l’imprenditore, aveva 39 anni e una figlia di sei. Oggi Giorgia è una giovane donna di 21 anni, studentessa universitaria e appassionata giocatrice di pallavolo. Da nonna Anita e mamma Ilaria ha preso forza e determinazione perché la vita si incarica sempre di trovare la sua strada. E anche se il dolore è di quelli che spaccano il cuore e non sanno più rimetterlo a posto, in questa tragedia senza perché non si può che ripartire da lei e da sua nonna Anita. «Tutti hanno dimenticato l’omicidio», dicono, «noi della famiglia ci auguriamo che nessuno debba vivere quello che abbiamo passato noi. Per questo bisognerebbe fare di tutto per non dimenticare, per far sì che certe tragedie diventino memoria collettiva».
Anita ha il coraggio delle mamme e delle nonne e in questi anni non si è mai fermata. Ha partecipato e partecipa a manifestazioni, ha promosso petizioni, con la mamma di Antonio De Meo, il ragazzo ucciso con un pugno a Martinsicuro qualche mese prima di suo figlio, ha avviato una raccolta di firme per chiedere che l’omicidio preterintenzionale diventi volontario partendo proprio da questi casi. «Un omicidio è un omicidio, un pugno uccide come un’arma», dice, «per questo abbiamo cominciato a raccogliere le firme per presentare una legge di iniziativa popolare che possa modificare il codice penale. I pugni uccidono ed è questo quello che noi chiediamo di riconoscere allo Stato. Le norme devono tutelare tutti, a cominciare dalle vittime che in questo Paese spesso sono dimenticate innanzitutto dallo Stato. So che esiste lo Stato di diritto, ma vorrei che fosse garantito anche alle vittime e ai familiari delle vittime e oggi così non è. Io so solo che a distanza di anni non auguro a nessuno di vivere una tragedia come quella che ha vissuto la mia famiglia». I macigni nel tempo sono diventati macerie perché «non c’è pace senza giustizia e noi giustizia non l’abbiamo avuta. Mio figlio quella sera ha incontrato tutto il male del mondo» L’epilogo giudiziario lo ha scritto la Cassazione con tre condanne a dieci anni per omicidio preterintenzionale. Per Anita «condanne ridicole di una giustizia farsa. La tragedia che ha vissuto la nostra famiglia è stata uno stillicidio e siamo riusciti ad andare avanti grazie alla nostra unità. Quando per i familiari di una vittima inizia un processo comincia un viaggio infernale tra cavilli, tecnicismi giuridici, cose da codice che dopo anni di udienze, perizie, ricorsi premiano chi ha ucciso e dimenticano i morti. L’omicidio di mio figlio è passato da volontario a preterintenzionale e questo ha contribuito a ridurre notevolmente le pene. Nessuno cerca vendetta, nessuno vuole vendetta, ma un omicidio è un omicidio». Anita non si ferma e ora che il pendolo della cronaca si arresta su un altro anniversario il cuore va oltre: «Ad Alba sono anni che Comune ed enti mi assicurano una targa in un luogo della città per ricordare mio figlio e la tragedia di quella sera, ma ancora oggi nulla. Io non mi arrendo e andrò avanti fino alla fine dei miei giorni». Perché quando il mondo si ferma serve il coraggio di una mamma per farlo continuare a girare.
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L’articolo Omicidio Fadani, mamma e figlia: «Tragedia dimenticata da tutti» – Teramo
www.ilcentro.it è stato pubblicato il 2024-11-10 02:26:00 da
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