«Volevo uscire da questa vita. Dovevano morire altre persone e non mi stava più bene». Il collaboratore di giustizia Andrea Romano, 38 anni, di Brindisi, ha lasciato intendere che all’interno dell’associazione di stampo mafioso, di cui ha ammesso di essere stato parte per poi diventare «il boss» di un clan con base nel rione Sant’Elia, ci sarebbe stata l’intenzione di «condannare a morte» qualcuno. Progetti omicidiari nelle logiche interne della Sacra corona unita di cui avrebbe parlato nel corso degli interrogatori resi ai pm della Dda di Lecce a partire dal 18 dicembre 2020 e solo in parte, ad oggi, leggibili per intero.
Di certo c’è che Romano, così come ha detto davanti al Tribunale di Brindisi, in collegamento video da una località protetta, voleva voltare pagina. Il pentito ha spiegato le ragioni alla base della decisione di lasciare il clan in occasione dell’ultima udienza del processo scaturito dall’inchiesta chiamata Nexsus, coordinata dalla pm della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, Giovanna Cannalire, che il 21 giugno 2022, sfociò nel blitz eseguito dai carabinieri, dopo una serie di accertamenti sul gruppo ritenuto mafioso che per l’accusa sarebbe stato guidato da Ivano Cannalire, nel frattempo condannato in abbreviato a 17 anni e 4 mesi. Il gruppo avrebbe progettato e consumato una serie di estorsioni, ai danni di imprenditori e commercianti di Brindisi.
Furono eseguiti dieci arresti, 21 gli indagati, a vario titolo. Sei gli imputati, tra i quali i fratelli e il padre di Cannalire che hanno rinunciato a riti alternativi.
Romano ha risposto anche alle domande del pm della Procura di Brindisi, Giovanni Marino: «Troppe cose mi avevano reso disturbato proprio, essendo il capo, e non accettavo più quello che facevo, volevo una vita migliore per la mia famiglia», ha detto dopo aver ricordato al Tribunale presieduto da Maurizio Saso di essere stato condannato, con sentenza definitiva, all’ergastolo per l’omicidio di Cosimo Tedesco, avvenuto il primo novembre 2014, e per il tentato omicidio di Luca Tedesco, figlio di Cosimo, lo stesso giorno.
«Ho dato subito dei riscontri. Quando ho fatto il primo interrrogatorio, ho consegnato un cellulare», ha detto facendo riferimento al telefono di cui aveva la disponibilità, nonostante fosse in carcere.
Su quel telefono, stando a quanto dichiarato, c’erano tutti i contatti che Romano aveva con la malavita brindisina: «Nomi di persone che appartenevano a me e che gestivo io anche dal carcere».
Romano, nel corso dell’udienza, ha raccontato della sua affiliazione a Francesco Campana, da cui è iniziata la carriera criminale, con il grado di «crociata», più alto del padrino, fino a diventare capo del gruppo: «Eravamo sotto casa di Antonio Signorile». Campana e Signorile sono estranei a questo processo.
www.lagazzettadelmezzogiorno.it è stato pubblicato il 2024-11-18 13:19:44 da
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