LA BELLEZZA dei luoghi, la loro fruibilità e vivibilità, la tutela e lo sviluppo dei servizi, possono essere sicuramente uno stimolo a scegliere di vivere nelle zone montane, frenando l’emorragia di risorse umane che costituisce il vero problema di fondo dell’abbandono in cui versano tante zone montane
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di Gabriele Vecchioni
Tra le mission delle associazioni socio-ambientalistiche, in particolare di quelle che, come il Club Alpino Italiano, si occupano dei territori montani, c’è la «promozione di iniziative di formazione di tipo etico-culturale, di studi dedicati alla diffusione della conoscenza dell’ambiente montano e delle sue genti nei suoi molteplici aspetti, della conservazione della cultura alpina». L’articolo vuole approfondire questi concetti.
In attesa della “stagione” escursionistica, che porta a una maggiore frequentazione degli ambienti montani, vediamo di prepararci con alcune brevi note relative alla cultura del territorio delle cosiddette Terre Alte. La definizione (contenuta in una pubblicazione ufficiale, il Bidecalogo del CAI nazionale) è entrata nell’uso comune: le Terre Alte indicano «le regioni di montagna occupate e vissute dall’uomo» e sono diventate, nell’immaginario collettivo, le montagne stesse.
Cultura della montagna «è quel patrimonio di conoscenze che ha solo chi ancora oggi continua a vivere (e a sopravvivere) in montagna […] una dote di esperienze tramandata di generazione in generazione, esperienze fondamentali per poter vivere in modo autosufficiente in alta quota. Cultura alpina è conoscere e interpretare il tempo meteorologico, sapere dove scendono le valanghe, come riparare un sentiero e la propria casa, come tenere pulito un bosco, come coltivare gli appezzamenti, come allevare il bestiame, come ricostruire muretti a secco crollati. Ma è anche ovviamente sapere la storia del proprio villaggio, conoscere i nomi dei luoghi, sapere andare in montagna e, perché no, saper cacciare… (Piero Carlesi, già Direttore generale CAI naz.)».
Brevissima storia dell’antropizzazione delle aree montane.
La presenza dell’uomo in montagna risponde storicamente a una duplice esigenza: la vita e il lavoro, stanziali o stagionali, nelle Terre alte, in collegamento con il fondovalle e la pianura, per necessità economiche vòlte allo sfruttamento delle risorse offerte dal territorio o alla libera espressione della propria cultura.
L’attraversamento delle aree montane, in epoca medioevale, oltre che per scopi bellici o legati al commercio, assunse a volte il carattere di “cammino di redenzione” e in numerosi luoghi vennero erette chiese, fiorirono monasteri e ospizi (gli hospitales) per accogliere i viandanti che si avventuravano in quei luoghi impervi.
Nelle valli abitate, dove si era sviluppato l’allevamento più dell’agricoltura, crebbe una mentalità di mutuo soccorso, di comunanza nelle difficoltà: gli abitanti dei paesi di montagna, spesso, sopravvivono meglio alle grandi calamità che colpiscono le pianure e le città.
Nei secoli successivi, l’economia montana diventò di pura sussistenza, cristallizzando l’organizzazione della società in un modello statico, conseguenza dell’involuzione sociale, dell’isolamento politico ed economico e dello spopolamento, legato all’emigrazione per la ricerca di migliori condizioni di vita.
Un breve inciso legato allo spopolamento.
L’abbandono favorisce sì il rimboschimento (la naturale riconquista territoriale) delle aree non più coltivate o sfalciate, ma la mancanza di manutenzione aumenta, di contro, il dissesto idrogeologico, l’abbandono e il degrado delle mulattiere e dei sentieri di collegamento, per la loro non-fruizione.
L’escursionismo, almeno così come lo intendiamo oggi, inizia dalla seconda metà dell’Ottocento, con la frequentazione della montagna per diporto, iniziando a rispondere, sempre di più, a esigenze turistiche e di arricchimento culturale e/o sportivo; all’inizio per un’elite alto-borghese e nobiliare, poi allargando la base di utenza, fino a diventare, oggi, un fenomeno sociale di massa.
L’escursionismo promuove la conoscenza consapevole del territorio, approfondendo i contenuti naturalistici e culturali. Alla base di tutto c’è il sentiero, segno dell’uomo sul terreno, simbolo della sua presenza nell’ambiente; andare per sentieri permette di conoscere concretamente il territorio, di “leggere” le opere dell’uomo, di capire il perché delle sue scelte, di verificare sul campo che la montagna è un ambiente ricco di vita vissuta e non soltanto un “bel posto”.
Percorrere un sentiero di montagna, anche oggi, nell’epoca del “mondo virtuale”, ha senso perché il sentiero assume la valenza di memoria storica, di bene culturale da tutelare e da tramandare: è importante ricordare che questi tracciati erano (e, in alcuni casi, ancora sono) percorsi di lavoro e di fatica, una sfida all’entropia della natura. I sentieri costituivano, ancora 50-60 anni fa, la rete di comunicazione delle citate “Terre alte”, una rete anastomizzata, viva e pulsante, essenziale per la vita delle popolazioni di montagna. L’incuria, l’abbandono e una errata pianificazione territoriale rischiano, però, di rimuovere in poco tempo, sia nella vita reale sia nell’immaginario collettivo, queste stratificazioni millenarie.
Il caso delle nostre montagne.
Per quanto riguarda i rilievi più vicini alla nostra zona (ai quali sono stati dedicati diversi articoli), ricordiamo che essi sono “montagne decisive”, avendo visto la presenza dell’uomo da millenni, quella presenza che ha prodotto, nel corso del tempo, le modificazioni che le hanno trasformate da territorio naturale a territorio antropizzato di campi e boschi.
In un precedente articolo, erano riportate le parole di Sergio Anselmi che, relativamente all’intervento dell’uomo sull’ecosistema montano, ha scritto (1989): «È difficile pensare a paesaggi naturali, a terrae incognitae e incontaminate: esiste un paesaggio che è il prodotto dell’uomo e della sua economia, che a sua volta riflette la sua cultura. E infatti, ogni “storia del paesaggio” ha, sottesa, la storia economica del rapporto dell’uomo con l’ambiente […] esso è mutato in continuazione, anche se con tempi ora meno ed ora più veloci».
Non è il caso di ripetere concetti e descrizioni già espressi (leggi qui l’articolo relativo) ma è opportuno ricordare che il rispetto per il territorio si esprime anche con lo studio della storia e delle relazioni tra i suoi componenti, fisici e biologici, uomo compreso: «Il paesaggio costituisce un bene culturale, inteso come monumentum ovvero testimonianza del passato, espressione di un insieme di valori, idee, credenze molto variabili e diviene un importante fattore di processi economici, sociali, politici e di sviluppo del territorio (F. Mitrotti, 2006)».
Lo spopolamento delle aree montane (in Italia, sono più di 5000 i paesi abbandonati) è sotto gli occhi di tutti e porta, immancabilmente a gravi problemi ambientali. È bene fare chiarezza sul termine “ambiente” perché spesso viene presentato (e percepito) come rivolto a pochi, a quelli che vorrebbero vietare ogni utilizzazione “umana” del territorio. Non è così. L‘ambiente è un bene di tutti e, come tale, va tutelato.
I territori montani sono strutturalmente fragili e perciò facilmente soggetti a danni gravi, spesso irreversibili; per questo, si avverte l’esigenza (forse più sentita da chi frequenta e ama la montagna) di monitorare e di difendere, anche per le generazioni future, la peculiarità dell’ambiente minacciato dal degrado.
Le esigenze della tutela ambientale portano a scelte di natura politica. È essenziale la collaborazione dello Stato con le Associazioni, per poter raggiungere gli obiettivi perseguiti, ricercando un nuovo equilibrio tra l’esigenza della conservazione dell’ambiente e quella di uno sviluppo armonioso della società umana che vi è inserita.
Considerazioni conclusive.
La riqualificazione paesistica delle aree montane è un problema anche delle nostre zone, recentemente colpite dagli eventi sismici tanto da poter parlare di “paesaggio mutato”. Tra l’altro, il drammatico concatenarsi di eventi ha accentuato il fenomeno dello spopolamento, già in atto da tempo.
La scelta (finora) fatta è stata quella di pensare a improbabili poli turistici per sciatori (… d’erba, dato che neve non c’è) in zone dove è difficile pensare a neve artificiale (c’è già l’esempio negativo dei Sibillini, dove l’innevamento artificiale costa alla comunità cifre enormi), tralasciando l’aspetto del turismo esperienziale («legato non solo alle caratteristiche qualitative naturali ma anche alle testimonianze storico-artistiche e antropologiche del territorio stesso») che aiuterebbe a riqualificare l’ambiente, aumentando il “valore d’insieme” delle zone montane, favorendo la stanzialità di chi desidera rimanere in loco, con idee di fruizione turistica organizzata e contrastando il degrado ambientale.
In chiusura dell’articolo, rileggiamo le parole di Paolo Cognetti, scrittore di montagna e vincitore del premio Strega 2017, che in un’intervista al “Il Sole-24ore” (2020) ha dichiarato: «Dico una cosa banale: in futuro, e non troppo lontano, molte località sciistiche situate non molto in alto rischiano di chiudere per poca neve. O comunque per il clima più mite.
Adesso, non domani, bisogna che si diano da fare per offrire qualcosa di alternativo allo sci da discesa. Bisogna reinventare il turismo invernale. E anche quello estivo.
Aggiungo un’altra considerazione: visto che con lo smart working si può lavorare in remoto, chi ha la possibilità si è trasferito con la propria famiglia dalla città verso luoghi più piacevoli. Anche in montagna, magari non troppo in quota. Qualche paese si è ripopolato. Si vedono anche bambini. Per questo dico che nulla è immutabile, anche la montagna può evolvere. Invece si spera sempre che il prossimo inverno porti un sacco di neve. Può succedere, ma poi torniamo al punto di prima».
Sono parole che invitano a riflettere sulla bellezza dei luoghi, la loro fruibilità e vivibilità, grazie alla tutela e allo sviluppo dei servizi: possono essere sicuramente uno stimolo a scegliere di vivere nelle zone montane, frenando l’emorragia di risorse umane che costituisce il vero problema di fondo dell’abbandono in cui versano tante zone.
Lo studio della storia di questi nuclei ha una forte valenza culturale, perché offre l’opportunità di conoscere e recuperare gli elementi caratteristici di una civiltà che il tempo sta cancellando: si (ri)scoprono tradizioni, coltivazioni, mestieri, espressioni culturali, stili e ritmi di vita.
Conoscere il passato è condizione preliminare e indispensabile per poter pianificare e progettare in maniera corretta ogni intervento sul territorio.
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www.cronachepicene.it è stato pubblicato il 2025-01-01 10:55:57 da Maria Nerina Galiè
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