«Alle Novate oltre 500 detenuti invece di 416, studio e lavoro altre not…


«Alle Novate oltre 500 detenuti invece di 416, studio e lavoro altre note critiche dolenti». A parlare Bruno Carrà, responsabile dell’Ufficio Antidiscriminazioni della Camera del Lavoro di Piacenza, che interviene sulla condizione delle persone detenute nella casa circondariale.

«Dopo la tragedia avvenuta il 30 dicembre 2024 nel carcere piacentino delle Novate, dove è morto un detenuto a causa di un tentativo dimostrativo finito male» scrive il sindacalista, aggiungendo che sono stati 88 i suicidi nelle carceri italiane nell’ultimo anno concluso, 243 le morti totali, «all’inizio di quest’anno c’è stata una ampia riflessione con la quale la garante dei detenuti per il carcere di Piacenza, Mariarosa Ponginebbi, ha sciorinato cosa va e cosa non va rispetto alla situazione presente alla casa circondariale del territorio piacentino».

«In cima alla lista dei problemi, come in tante realtà detentive – sottolinea Carrà –  c’è il sovraffollamento, considerando che a Piacenza dovrebbero essere collocati nell’Istituto penitenziario delle Novate 416 soggetti in restrizione, ma ormai si è andati a superare quota 500, con una situazione che non si cura della dignità umana. In Italia i posti carcerari disponibili sono 47mila, ma 62mila 400 è il numero delle persone attualmente detenute nel nostro Paese, quindi ben più di 15mila sono le persone senza un posto regolamentare. Il sistema penitenziario ormai da diversi anni è afflitto da un cronico sovraffollamento e in molti casi lontano dagli standard compatibili con i principi costituzionali e con le carte sovranazionali sui diritti.

«Sulle 62 mila persone attualmente detenute nel nostro Paese – prosegue la nota stampa – 8mila devono scontare meno di un anno di pena, e più di oltre 3mila restano 6 mesi solo da scontare, raddoppiano il numero dei detenuti in attesa di giudizio, 19mila i detenuti stranieri, 17mila tossicodipendenti, 4mila sono i malati di mente dietro le sbarre e chi ha un disagio e sofferenza psichiatrica è una persona malata da curare in dignità nel proprio contesto e non disumanamente da considerare soggetto pericoloso da isolare. Questo è l’insegnamento e il modello primo di Basaglia con la Legge numero 180 del maggio 1978, che si è occupata di accertamenti e trattamenti di carattere sanitario volontari ed obbligatori che viene associata al suo nome, normativa che questa maggioranza di governo colpevolmente tende a minimizzare e superare, stravolgendola. Occorrerebbero interventi per ridurre la pressione oggi che si pone sul sistema carcerario e non fantasmagorici annunci di possibili costruzioni per nuovi penitenziari. Il valore di quella legge di riforma del 1978, per inciso, sta proprio nella sua spinta liberatoria e nella visione di società solidale, con la chiusura dei manicomi ed è ancora oggi una speranza perché pose fine a secoli di abusi. Per questo questa grande conquista sociale è un impegno da mantenere e da rilanciare».

«I dati appena ricordati sulle detenzioni – spiega Carrà – ci fanno riflettere che basterebbe intervenire con un buon senso civico e sanitario attraverso una ponderata sottrazione aritmetica per essere molto vicini a risolvere questa questione che affligge il sistema carcerario, sapendo che non è l’unica. Va quindi compreso, come richiamato nel discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella del 31 dicembre scorso, il rispetto e dignità per ogni persona e pertanto anche per chi si trova in carcere e come l’alto numero di suicidi debba considerarsi indice di condizione inammissibile, partendo dal dovere di osservare la nostra Costituzione che indica regole e norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il medesimo sovraffollamento negli istituti penitenziari rende inaccettabili pure e anche le condizioni di lavoro del personale posto all’interno di essi. I detenuti devono poter respirare un clima differente da quello che li ha condotti all’illegalità e al reato. Ad esempio, il dl del 4 luglio 2024 numero 92, di cui diamo un giudizio negativo, contiene misure in materia penitenziaria e affari limitrofi: al Capo II reca disposizioni in materia di diritto penale, ma mentre come Cgil chiediamo provvedimenti legislativi in grado di incidere in concreto sul gravoso sovraffollamento carcerario e sulle condizioni delle carceri da un punto di vista strutturale, nessun provvedimento è stato invece realmente previsto».

«Manca, quindi – continua – qualsiasi norma effettiva che modifichi in maniera significativa l’esistente e che realmente incida sul quantum di pena. Quindi non ci sarà nessun effetto concreto e positivo se non modifiche parziali e non molto rilevanti su modalità e tempistiche riguardo l’iter per concedere la normale liberazione anticipata, anche se il livello di civiltà di un paese lo si misura anche dalle condizioni delle sue carceri e dal trattamento riservato alle persone detenute in restrizione carceraria. Non trovo azioni che possano migliorare veramente le condizioni di vita e di lavoro negli istituti penitenziari, e pertanto non cambierà una situazione insopportabile per la vita e la dignità delle persone coinvolte. La governante stessa del sistema penitenziario del nostro Paese presenta tutti i suoi limiti. Le cure sanitarie stesse, la lotta alle dipendenze e di supporto psichiatrico, ha trovato nella Regione Emilia Romagna un supporto concreto: infatti sono stati destinato 1,7 milioni di euro dall’Azienda Sanitaria locale di Piacenza per la specifica assistenza sanitaria nel carcere delle Novate per una effettiva continuità di cura tra il carcere e il territorio indispensabile per ridurre recidive e promuovere quelle riabilitazioni indispensabili all’interno di una fascia di gente particolarmente fragile da bisogni che spaziano da malattie cronache sino alla salute mentale sino alle malattie tipologiche. È così che si può rafforzare una risposta medica degli Istituiti carceri per coloro che sono in sofferenza».

«Poi alle Novate  – scrive – lo studio e il lavoro sono altre note critiche e dolenti; infatti, i detenuti autorizzati a lavorare con l’articolo 21, lo fanno soltanto nell’ambito interno del carcere e non in città, ed in più ci sono serie difficoltà a conseguire dal carcere il diploma di cinque anni, e avviene che detenuti arrivati al quarto anno provenienti da altri Istituti di detenzioni non riescano a finire il ciclo scolastico, minando un proficuo inserimento nella società una volta terminata la pena. Rimango convinto che le “Novate”, come ogni carcere, siano un pezzo della città, seppur dolente e particolare, e quindi deve interessare come società civile facendosene carico. Il carcere non deve essere considerato una sorta di “discarica sociale”, ma occorre al contrario costruire uno strumento sistemico che invece sappia migliorare la vita in carcere, tendere alla reintegrazione sociale delle persone, e quindi un’occasione che potrebbe anche migliorare la condizione lavorativa delle guardie penitenziarie.  Come Cgil ci preme, pertanto, fare alcune considerazioni sapendo le condizioni drammatiche in cui versano molti penitenziari in Italia. Rieducare le persone recluse può essere un poderoso tentativo di tirar fuori quella consapevolezza della possibilità di vivere in altro modo, non considerando il reato come unica possibilità di sopravvivenza ad una situazione di disagio economico; cioè, attraverso il lavoro e la cultura del lavoro individuare una condizione di riscatto. Può diventare uno speciale strumento educativo nel momento in cui il lavoro è tutelato e retribuito dentro la detenzione stessa (perché i soldi servono anche in quel luogo o per le famiglie a casa e per acquistare qualcosa per se stessi). Ci vuole un’attività costante che rompa la logica dell’assistenzialismo, mettendo al centro la persona e il raggiungimento dell’obiettivo dell’inclusione sociale nel rispetto delle pari opportunità. Serve creare azioni per il lavoro e orientamento al lavoro che facciano acquisire a queste persone, oggi detenute, una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative dell’esterno e agevolare così il reinserimento. Tutto questo è difficile ma è la strada migliore per un reinserimento attivo con un definito ruolo proprio nella collettività che elimini il senso di emarginazione dalla società, dovuto soprattutto al problema dell’etichettamento, far aumentare al tempo stesso fiducia nelle proprie capacità e riducendo drasticamente i rischi di recidiva. In questo contesto si colloca il disegno di legge elaborato dal Cnel che ha istituito l’integrale applicazione dei contratti collettivi di riferimento, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative, superando il lavoro di pubblica utilità non retribuito.

«Per questi motivi – conclude – serve un deciso e necessario intervento sul piano sociale e nel welfare cittadino (e non politiche securitarie), senza dimenticare che anche i detenuti, se ne posseggono i requisiti, hanno diritto ad accedere a diversi ammortizzatori sociali o intraprendere l’iter per ottenere sostegni al reddito. Per chiudere ci sono le falle dettate dall’ultimo Ddl Sicurezza. Preoccupa ad esempio aver inserito l’estensione dell’apprendistato professionale, così come introdotto dal nefasto Job Act, cioè senza limiti di età ai condannati, gli internati ammessi alle misure alternative e ai detenuti assegnati al lavoro esterno. Questo provvedimento è contrario al valore e al significato che deve avere il lavoro dei detenuti. Oltre a ridurre i costi per le aziende, si diminuiscono diritti e tutele, come se il lavoro per chi vive una situazione penalizzante dovuta all1a condanna che va espiata, ben inteso, non fosse davvero un diritto ma una concessione. In questo modo si fa fatica a comprendere come il valore di risocializzazione possa sostanziarsi nel pieno riconoscimento dei diritti e doveri (comprese colpe e pene) perché l’assunzione di persone, in situazioni di bisogno, così viene legata esclusivamente a incentivi economici (mancette), sgravi fiscali e a una retribuzione sostanzialmente ridotta. Non è questa la strada e la Cgil continuerà a chiedere l’affermazione dei diritti pieni e totali anche per chi ha sbagliato, che giustamente deve espiare e scontare la propria colpa e il danno procurato, ma senza limitazioni sui diritti delle persone, chiunque esse/essi siano».

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www.ilpiacenza.it è stato pubblicato il 2025-01-10 16:50:56 da


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