BARI – «Comunque a me non interessa niente che tu hai 12 anni, se ti vedo a Japigia ti devo staccare la testa. Tu sei infame come a tuo padre». Le minacce del clan alle famiglie dei «pentiti» non avrebbero risparmiato neanche i bambini.
Lo spaccato della vita di un quartiere «a gestione mafiosa» emerge plasticamente nei racconti dei collaboratori di giustizia che – a volte a distanza di decenni dai fatti – rivelano i dettagli delle ritorsioni, delle «punizioni» per i tradimenti, i complotti per isolare sodali scomodi, ma anche i rapporti oscuri con il mondo che con la criminalità non ha apparenti connessioni, quella «zona grigia» che tante volte le indagini dell’Antimafia hanno rivelato.
E così, anche negli atti dell’indagine che tre giorni fa ha riportato in cella il boss di Japigia Eugenio Palermiti, «il nonno», anche soprannominato «il vecchio» e «u’ gnor», 70 anni il prossimo giugno, ci sono rivelazioni che abbracciano almeno l’ultimo decennio.
Nelle parole del «pentito» per eccellenza di Japigia, quel Domenico Milella per anni braccio destro del capo clan, c’è il racconto dettagliato dell’agguato del 20 novembre 2013 a Teodoro Greco, incensurato estraneo al gruppo criminale, eseguito dallo stesso Milella (due colpi di pistola alle gambe «per spaventarlo») e ordinato dal boss. La difesa di Greco, l’avvocato Vitangelo Laterza, precisa che «lo stesso non ha mai fatto favori in cambio di protezione a nessun presunto esponente della criminalità organizzata e né, tantomeno, ha mai chiesto protezione ad alcuno».
Parlando di quegli anni, Milella si spinge ad insinuare anche vicende che con le tradizionali attività illecite del clan non avevano a che fare, come vecchie storie elettorali. «Io ero ragazzino ancora, si può dire alle prime armi, non ero quello che sono oggi – spiegava Milella ai magistrati della Dda nel 2020, raccontando fatti di quasi un ventennio prima – Quindi non sapevo tante cose, però sapevo, sentivo discorsi che davano i soldi che ricevevano dai politici, per sponsorizzare le varie campagne elettorali». Insinuazioni, appunto, che non avrebbero trovato conferma e che, comunque, si riferiscono ad un’era fa. Ma nei racconti dei collaboratori di giustizia c’è il riferimento anche ad altri contesti che spesso hanno sfiorato le inchieste antimafia, per esempio la «gestione» delle case popolari. Oltre al ferimento di Greco, infatti, il provvedimento cautelare a carico di Palermiti riguarda anche le presunte minacce (qualificate come violenza privata e stalking) rivolte ai «pentiti» e alle loro famiglie. Questi fatti sono molto più recenti, risalgono ai primi mesi del 2022, quando finirono in cella i presunti autori e fiancheggiatori del duplice agguato mafioso ai fratelli Rafaschieri del 28 settembre 2018, nel quale fu ucciso Walter e ferito Alessandro. I sicari furono identificati in Giovanni Palermiti, Filippo Mineccia (rispettivamente figlio e genero del boss Eugenio) e Domenico Milella. Tra i fiancheggiatori, invece, furono individuati Gianfranco Catalano e Domenico Lavermicocca, il primo accusato di aver segnalato al commando l’arrivo delle potenziali vittime, il secondo di essersi adoperato, nelle fasi immediatamente successive all’omicidio, affinché ogni traccia o elemento che potesse ricondurre agli autori dell’azione di fuoco, fosse dispersa. In primo grado (è in corso il processo d’appello) il figlio del boss è stato condannato all’ergastolo, Mineccia a 20 anni di reclusione.
Quando furono interrogati dopo gli arresti, entrambi confessarono e ottennero gli arresti domiciliari. A quel punto sarebbe iniziata una opera di intimidazione nel quartiere alle loro moglie e anche ai figli, fino a convincerli a scegliere la strada della collaborazione con la giustizia. Quando Lavermicocca tornò a casa, agli arresti domiciliari, l’intera sua famiglia venne isolata. Alcune persone, parlando al telefono con la moglie, dissero di essere impossibilitate a frequentarli, perché erano state avvisate e se non si fossero attenute alle disposizioni ricevute, evidentemente dal clan Palermiti, avrebbero subìto le conseguenze. «Prima che uscivo – ha raccontato il “pentito” – mia moglie già veniva vista con un occhio diverso, già aveva atti intimidatori anche da tutte le altre mogli, di quelli che per loro io avevo sbagliato. Mi hanno tutti isolato praticamente. Mia moglie uscì il martedì per fare la spesa, si vide seguita e poi salì in un portone e da quel giorno non è più scesa. Appena mia moglie scendeva in strada ruttavano, la sputavano, come atteggiamento di schifo, di sdegno. Poi siccome anche i miei figli andavano in classe con i figli delle figlie di Eugenio Palermiti, mia moglie era in una situazione di paura, quindi non scendeva più, non accompagnava più i bambini a scuola».
All’epoca, prima di entrare nel programma di protezione, Lavermicocca abitava con la famiglia in una casa popolare. «Avevo una casa popolare che loro subito andando io via volevano già farla vendere, rivendere, come fanno sempre sulle case popolari; che poi mi pare che è stata affidata ad un’altra famiglia, non so ora chi ci sia dentro. Non so – ammette il “pentito” – se con lo zampino di loro».
Leggi tutto l’articolo Bari, arresto Palermiti: il clan minacciò un 12enne, «Se ti vedo a Japigia ti stacco la testa»
www.lagazzettadelmezzogiorno.it è stato pubblicato il 2024-02-15 13:00:31 da
0 Comments