Nel giorno dell’ultimo saluto c’è un’immagine di Papa Francesco che voglio ricordare. Non è un gesto solenne, né una frase ad effetto. È un sorriso. Quello che affiora quando incontra i bambini, quando scherza sulla sua età o sul proprio accento argentino.
È un sorriso che disarma, che rassicura ma che in fondo rivela tutta la profondità della sua visione, una fede che si fa umana, una Chiesa che cammina, una politica che torna ad avere il volto delle persone.
Francesco sa ridere. Di sé, degli stereotipi, delle attese che lo circondano. Ma il suo umorismo non è evasione: è profondità spirituale. È il segno di una fede che non ha paura della fragilità, ma che proprio lì trova la propria forza. In tempi cupi, il suo modo di sorridere è già stata una scelta politica: diceva che si può essere credenti senza essere rigidi, profondi senza essere tristi.
Con l’enciclica Laudato si’, Francesco ha ridisegnato la mappa della coscienza globale. Non si tratta solo di ambiente: si tratta di giustizia. Il grido della terra e quello dei poveri sono un unico appello. La sua idea di ecologia è integrale: unisce natura, relazioni, spiritualità, economia. Ci chiede di uscire dalla logica del consumo e di entrare in una logica di cura. Non padroni, ma fratelli.
Francesco ha denunciato i poteri che escludono, la finanza che opprime, la politica che si allontana dal popolo. Ma proprio per questo ha restituito alla politica la sua dignità più alta: quella di essere “una forma alta di carità”. Nel suo discorso ai movimenti popolari, ha parlato di “una politica con la P maiuscola”, fatta di ascolto, di lotta, di sogni concreti.
Per lui, la politica non è ideologia, ma prossimità. Non è una gara tra vincenti, ma una via per restituire dignità a chi è invisibile. È un Vangelo che si traduce in scelte.
La Chiesa di Francesco non è stata una roccaforte, ma una tenda aperta. Una Chiesa che non si chiude nella purezza, ma si lascia contaminare dalla realtà. Che dialoga con tutti, anche con chi non crede. Che parla a chi è lontano, senza giudicare.
Francesco non cambia la dottrina, ma cambia lo sguardo e ci ricorda che il cuore del Vangelo è l’incontro, non la regola. La misericordia, non il controllo.
Il sorriso di Francesco è stanco, forse, ma mai rassegnato. È il sorriso di chi ha visto le ferite del mondo e ha scelto di continuare a sperare. Di credere nella fraternità, nella pace, nella tenerezza come linguaggio politico.
E tra le ferite più profonde, ha saputo riconoscere anche quella della sofferenza estrema. Per questo ha sostenuto con forza il valore delle cure palliative come risposta concreta e umana alla fragilità, come gesto di prossimità e di amore verso chi è nel passaggio più difficile della vita.
In un tempo di muri, ci ha ricordato che siamo tutti sulla stessa barca. E che il mondo, nonostante tutto, può ancora essere una casa. Ma solo se la costruiamo insieme.
Da medico ho imparato a ‘restare accanto’ quando tutto sembra finire. Da deputato, ho provato a tenere aperta una porta alla dignità. In Papa Francesco ritrovo il senso di entrambe le vocazioni: prendersi cura e servire con umanità.
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