Pistoia: intervista a Enrico Calamai, Premio Caponnetto 2024


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di Stefano Di Cecio

PISTOIA – Enrico Calamai, anni 79, vice console a Buenos Aires nel 1976, ovvero nel periodo del golpe militare messo in atto da Videla (mercoledì 24 marzo, 1976) dove salvò più di 300 persone.

Lo abbiamo incontrato in occasione della proiezione del docufilm “Enrico Calamai – Una vita per i diritti umani” di Enrico Blatti, al Circolo Aziendale Hitachi. La proiezione era organizzata dall’ANPI di Pistoia, di cui era presente la Presidente Rosalba Bonacchi, in collaborazione con l’Archivio Marini, con la presenza del Presidente Roberto Niccolai.

Enrico Calamai

Ti hanno spesso definito lo Schindler di Buenos Aires per quello che ha fatto prima in Cile e poi in Argentina per centinaia di perseguitati.

Mi sembra una follia. Mi sembra che mi abbiano mescolato con Hollywood. Intanto erano periodi diversi ma poi Schindler era un imprenditore, io un funzionario dello Stato italiano con delle responsabilità deontologiche,  se c’è qualcuno cui posso aspirare per paragonarmi, è il diplomatico svedese Wallenberg. che era in Ungheria durante la seconda guerra mondiale e che è stato poi fatto sparire dai sovietici nel 1945.

La prima volta sei intervenuto è stato per salvare gli italiani da Pinochet?

Sono stato inviato in missione per tre mesi all’ambasciata Santiago un anno dopo il golpe perché nell’ambasciata c’erano 250 rifugiati cileni.  In quel periodo il Cile non dava il lasciapassare per andare all’aeroporto e l’Italia non voleva accettare i rifugiati, era una situazione di stallo.  Non ho salvato nessuno e tanto meno italiani. Il giorno in cui io stavo partendo è arrivato un telegramma da Roma che parlava di un accordo tra il governo italiano e i militari cileni, quest’ultimi avrebbero dato un salvacondotto a tutti i rifugiati perché andassero all’aeroporto, il governo italiano li avrebbe accolti in Italia e avrebbe contemporaneamente alzato il muro della residenza dell’ambasciata e messo la concertina di filo spinato. I militari cileni avrebbero aumentato la sorveglianza intorno in modo che nessuno più sarebbe entrato. E’stata una vittoria per i rifugiati che si sarebbero così salvati ma anche una sconfitta da un punto di vista umanitario, perché l’ultima porta aperta a Santiago, il muro dell’Ambasciata italiana (che poteva essere saltato ndr), è stata chiusa definitivamente.

Rientrato a Buenos Aires quali sono stati i segnali che qualcosa di brutto stava succedendo?

Il colpo di stato è avvenuto il 24 marzo, un mercoledì. Ricordo bene che sembrava non fosse successo nulla a Buenos Aires, a differenza di quello che era accaduto a Santiago, dove c’era stato il bombardamento del palazzo presidenziale, i carri armati nelle strade, lo stadio pieno di detenuti, torturati e fucilati, le ambasciate piene di rifugiati in fuga per la vita. A Buenos Aires non succedeva nulla.

I negozi erano aperti, i ristoranti pieni, i cinema pure, la gente per strada tranquilla. Sembrava non fosse successo nulla. Però, lo stesso pomeriggio, ho visto il corrispondente del Corriere della Sera, Gian Giacomo Foà, e mi ha detto guarda che le cose non sono quello che sembrano in centro. Ci sono posti di blocco nella periferia, ci sono intrusioni nelle case, vengono portati via dei ragazzi e l’impressione è di una violenza calibrata in modo che non si possa rappresentare. E quindi di notte o di giorno, con macchine e camion senza targa, con militari in borghese. Un’altra importante figura che mi ha aiutato è stato il sindacalista Filippo di Benedetto.

Quali situazioni ti si sono presentate?

Genitori italiani che si erano visti portare via i figli e di cui non erano riusciti più a sapere niente, giovani che venivano in consolato e dicevano “guardate noi non sappiamo più dove nasconderci, se ci cacciate ci prendono e ci ammazzano”.  A quel punto io ho pensato che l’Italia, non il Ministero degli Esteri, ma proprio l’Italia, il popolo italiano che io rappresentavo in qualche modo, era favorevole ad aiutare la gente, molto semplicemente. Per di più avevo gli strumenti per farlo, perché io ero responsabile dei passaporti. Potevo rilasciare i passaporti e ero responsabile anche del cosiddetto rimpatrio. Il problema però era come uscire dal paese.

L’abbiamo risolto utilizzando non l’aeroporto intercontinentale dove i controlli erano più severi ma quello in centro città per i paesi vicini, come iI Brasile e i Paraguay. Qui il controllo all’aeroporto era trascurato perché in quei paesi c’erano già militari argentini che davano la caccia ai propri connazionali secondo il piano Condor che prevedeva la possibilità per i militari degli stati membri di dare la caccia ai propri sovversivi in tutti gli altri paesi. Quindi se un argentino scappava in Uruguay cadeva nel sacco perché lì lo beccavano. Nel nostro caso il figlio di italiani nato in Argentina partiva col documento argentino, ma sbarcava col passaporto italiano.  Con questo sistema siamo riusciti a far scappare molte persone. Il mio successo è stato di riuscire a organizzare presso il Consolato d’Italia a Buenos Aires un ufficio aperto a chiunque avesse problemi. Una struttura dello Stato italiano che funzionava per aiutare la gente.

Hai mai avuto mai difficoltà o problemi con il Console?

Sì, sempre. Mi ostacolava continuamente, Fino a che sono stato sollevato dall’incarico. Il golpe è stato a marzo, a ottobre del 1976 è arrivata la mia sostituzione  ma per le più elementari norme amministrative non ci possono essere due persone con lo stesso incarico. Ciò, nonostante sono riuscito a fare ricorsi, ogni sorta di cose, e sono andato avanti fino a maggio del 77, poi ho capito che era finita e sono tornato in Italia. La verità è che il governo italiano voleva evitare tensioni con i militari al potere, perché se la situazione era stata difficile in Cile, in Argentina c’erano interessi fortissimi, era uno dei paesi con più risorse al mondo e quindi il sistema produttivo e finanziario italiano premeva per avere rapporti privilegiati con i militari del potere. Non sapevo dell’esistenza della P2 onestamente a quei tempi. Però dopo ho capito che la P2 era il vero canale di comunicazione tra l’Italia e l’Argentina. I più alti gradi dei militari argentini erano membri della P2.

Ti ricordi un caso che ti ha particolarmente colpito?

Un giorno, in Consolato, si è presentata una ragazza. Voleva fare una dichiarazione asseverata, notarile, che lei era stata sequestrata, spogliata, torturata, sempre con gli occhi bendati. A un certo punto le hanno tolto la benda, le hanno fatto vedere il suo compagno, che veniva a sua volta torturato. L’hanno tenuta prigioniera, senza sapere per quanti giorni, perché perdi il senso del tempo. Poi improvvisamente l’hanno liberata. Le hanno detto, guarda, se tu ci denunci, noi sappiamo dove abiti e ti ammazziamo. Ma lei aveva sentito il dovere di far sapere quello che era successo. E’ venuto in Consolato e ha detto è successo questo, ma non so perché mi hanno sequestrato e non so perché mi hanno liberato, ma voglio che il Governo italiano sia informato. Io ho trasmesso tutto alla Farnesina. Non c’è stata risposta.

Negli anni a seguire, dopo la fine di questa dittatura militare, Ci sono state persone che ti hanno ricontattato?

Sì, a Roma ce ne sono parecchi e ci vediamo ogni tanto.

Quali sono state le motivazioni economiche del colpo di stato? 

L’obiettivo politico era imporre il neoliberismo più aggressivo possibile, come aveva fatto Pinochet’. Cera la scuola neoliberista di Chicago, il cosiddetti Chicago Boys di Milton Friedman e loro hanno applicato fin dall’inizio la privatizzazione di tutto, i licenziamenti, lo smantellamento dei sindacati, l’eliminazione di chiunque fosse un potenziale oppositore, proprio l’eliminazione fisica, in modo da imporre un sistema in cui l’homo politicus non c’era più, c’era soltanto l’homo economicus. Hanno vinto loro. Il neoliberalismo comincia lì. Viene applicato per prima volta in Cile e subito dopo in Argentina. Per quanto riguarda il ruolo degli Stati Uniti, Kissinger ha ricevuto i. Militari e gli ha detto fate quel che volete ma fate in fretta. Perché non succeda come con Pinochet, che non si sappia quello che state facendo. Finché voi ammazzate, fate quello che volete sotto il tavolo così non si viene a sapere, ma sopra siamo tutti sorridenti e noi vi appoggiamo. Se però si sa, vi dobbiamo mollare.

Al ritorno in Italia?

Sono tornato in pessime condizioni sia psicologiche che di carriera, perché sconfitto e considerato un pazzo, perché per il Ministero degli Esteri non era successo nulla in Argentina. Ero un visionario che si inventava tutto. Insomma, me la son vista abbastanza brutta, era scontato, no? Dopo cinque anni mi son trovato in una situazione economica molto difficile, poi l’incarico in Nepal e infine in Afghanistan.

Cosa ti aspetti dal fatto che sono anni che porti avanti queste testimonianze relative all’Argentina?

Quello che è successo in Argentina è stato mezzo secolo fa. Secondo me ha senso perché Proseguono a esserci le stesse sistematiche violazioni dei diritti umani. In particolare questo si vede con l’immigrazione, cioè la strategia eliminazionista inventata dai militari argentini, cioè la desaparicion. Ha funzionato. perché è qualcosa di impalpabile, di indimostrabile, di contestabile, che non ti rimane nel cervello. Mentre quello di Pinochet lo sappiamo tutti, lo riviviamo tutti, la desaparicion è qualcosa che il cervello non riesce a farci presa, non c’è il morto e quindi non c’è il delitto. In realtà qualcosa che può essere molto utile per i governi. E’ successo in tanti paesi ed è quello che sta succedendo oggi con i migranti che muoiono nel deserto, che vengono fatti morire, che vengono seguiti mentre muoiono perché ci sono gli aerei spia, i satelliti, i droni.

Queste sono cose di cui molto spesso siamo responsabili noi occidente, no? Ecco, vengono fatti sparire morire, respingere sempre più nel nulla mediatico, perché non si sappia. Noi sappiamo che muoiono, ma non lo vediamo e poi c’è quelli che arrivano al Mediterraneo e che vanno fatti morire in mare. Non devono arrivare. Quindi è la stessa strategia, infatti parliamo di nuovi desaparecidos. Ecco perché ha un senso. Credo ci sia un filo rosso che unisce l’eliminazionismo nazista nei confronti degli ebrei, anch’esso segreto di cui nessuno sapeva, ma tutti sapevano ma non sapevano, quello che hanno fatto gli argentini, e quello che facciamo noi occidente con i migranti.

A Enrico Calamai il Premio Caponnetto 2024. La premiazione il 6 dicembre.


Leggi tutto l’articolo Pistoia: intervista a Enrico Calamai, Premio Caponnetto 2024
www.reportpistoia.com è stato pubblicato il 2024-09-20 15:31:55 da Stefano Di Cecio

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