E’ iniziato giovedì ad Alessandria il processo alla 19 enne Makka Sulaev, la ragazza di origine cecena che a marzo uccise il padre Akhyad, 50 anni, un uomo violento, secondo varie testimonianze. Quel giorno si era licenziato e di fronte alle proteste della moglie per questa scelta, reagì con le botte.
La ragazza è agli arresti domiciliari e nella prima udienza le è stato negato dai giudici il permesso di andare a scuola fisicamente. Ha rilasciato un’intervista all’inviata del Corriere della Sera Giusi Fasano, nella quale si dice pentita, anche se in quel momento si è trovata senza scelta: “Ho ucciso mio padre perché non avevo scelta e da allora non è per niente facile andare avanti. Non puoi più essere felice perché ti senti in colpa per ogni cosa, ogni secondo… Mi sento in colpa malgrado tutto quello che abbiamo dovuto vivere in quella casa”. Si augura che i giudici e la gente capiscano quello che è davvero successo in quei momenti.
“Svegliarsi e guardarsi allo specchio è diventato pesante, perché non puoi fare a meno di pensare: ma davvero ho fatto questa cosa? Non puoi più essere felice perché ti senti in colpa ogni secondo… Mi sento in colpa malgrado tutto quello che abbiamo dovuto vivere in quella casa…”.
Della vita in casa l’imputata ricorda diversi episodi: “A volte prendeva mia madre e la trascinava davanti ai miei fratelli maschi per mostrargli come si tratta una donna”. “Quando picchiava usava la tecnica del pugno forte sulla bocca dello stomaco, che impediva di respirare».
A sostegno della sua difesa ci sono anche i Whatsapp dell’uomo alla moglie: «Appena arrivi a casa ti stacco la testa». Era arrabbiato con la moglie perché lei aveva osato rimproverarlo per essersi licenziato e le mandò diversi messaggi minacciosi. che lei girò a sua figlia. Makka era terrorizzata e, temendo che lui avrebbe ucciso la madre, uscì di casa a comprare un coltello, da qui la premeditazione che le viene contestata nel capo di imputazione.
Come previsto quando Akhyad Sulaev torna a casa è una furia. La ragazza interviene a difesa della madre, fino al tragico epilogo.
Del processo appena iniziato Makka dice: “Ho guardato i giudici negli occhi, mi ispirano fiducia anche se ci sono rimasta un po’ male perché hanno detto no alla richiesta di scuola in presenza e per la motivazione che hanno dato, cioè che in situazioni di stress potrei essere di nuovo aggressiva. Non mi conoscono, non è vero”.
Alla domanda dell’intervistatrice: “È pentita per quello che ha fatto?”. Makka risponde così:
«Non c’è un solo giorno in cui non mi tormenti pensandoci. Ogni volta che chiudo gli occhi rivivo quel momento e mi chiedo: c’era un modo diverso per proteggere mamma senza arrivare a quella tragica fine? Mi sentivo persa, disperata, come se non ci fosse più una via d’uscita. Togliere la vita è qualcosa di irreparabile, qualcosa che non si può più cambiare e forse nemmeno perdonare. Non c’era amore tra noi, non c’era affetto, c’erano solo paura, violenza fisica e psicologica, ma uccidere… quello no, non è giustificabile; mi rendo conto e mi prendo tutte le responsabilità».
“Sono profondamente pentita. E vorrei poter tornare indietro. So che il mio pentimento non potrà cambiare le cose né liberarmi dal peso che ho dentro e dal rimorso che provo. Credo che se non fosse andata così il giorno dopo i giornali avrebbero scritto dell’ennesimo femminicidio o magari di un duplice o triplice omicidio, e la nostra famiglia sarebbe comunque rimasta macchiata di sangue. Al posto mio oggi al processo ci sarebbe mio padre…».
Chiede ancora la giornalista del Corriere della Sera: “Che cosa ricorda quando pensa a suo padre?”
«Se ripenso a lui non riesco a vedere solo l’uomo che ci faceva soffrire, c’è una parte di me che ricorda anche altro. Ma soprattutto vedo un uomo che non c’è più, che io ho fatto sparire, e mi tormenta l’idea che magari quel giorno poteva esserci un’altra soluzione».
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