Criminalità a Bari, le chat segrete del clan con gli ordini per i traditori: «Dovete farli vivere nel terrore»



BARI – «Nessun comportamento aggressivo o minatorio può essere tollerato da un boss mafioso specie se indirizzato al figlio minorenne». È ciò che è accaduto a un giovane che nell’imbattersi in una problematica con il figlio di Gianni Palermiti, leader emergente del clan, «pur vantando, dal canto suo, la conoscenza di parenti e amici intranei al clan Parisi, paga a caro prezzo “l’affronto” rivolto al figlio del boss». È uno degli episodi ricostruiti grazie alle chat, ormai non più segrete, decriptate dagli inquirenti della Dda di Bari tra vertici e sodali del clan mafioso Palermiti di Japigia. Chat che, per usare le parole dei magistrati Antimafia, hanno consentito una «organica ricostruzione di quanto accaduto e ad oggi rimasto sommerso nel periodo febbraio 2020 – febbraio 2021, allorquando il clan Palermiti stava riprendendo piede e vigore sulla scena criminale locale gestendo un volume di affari confluenti in una cassa separata da quella del clan Parisi, con cui aveva sancito una stretta alleanza storica nella lotta agli scissionisti».

La vicenda-vendetta che vede protagonista Giovanni Palermiti, figlio del capo clan Eugenio, risale a maggio 2020. Eugenio jr, figlio di Gianni, era stato minacciato sui social dopo il danneggiamento di una moto. Scooter che, dopo l’affronto al figlio del boss, sarà oggetto di furto su commissione dei Palermiti, «decisi – si legge negli atti – a rivendicare la grave mancanza di rispetto avuta dal giovane nei confronti della famiglia, pagata a caro prezzo dal giovane “sprovveduto”».

Quello che le chat rivelano, anzi confermano, è la violenza con la quale il clan rivolve le diatribe interne e le contese esterno. Dal 2017 in poi, infatti, il quartiere Japigia è stato teatro di una guerra di mafia e poi di una nuova organizzazione delle dinamiche e della geografia dei clan maturate a seguito della faida con il «traditore» Antonio Busco per la gestione del traffico di droga e del «pentimento» di uno dei leader storici del gruppo criminale, Domenico Milella, braccio destro del boss Palermiti.

Il clan, secondo la Dda, «durante il periodo della guerra sembra vantare un’organizzazione numerosa e spietata capace di forgiare militanti desiderosi di emergere e di assomigliare in tempi brevi ai loro padrini di camorra; difatti, una delle “cacce” più lunghe e plateali in tal senso è proprio quella al leader scissionista Busco, originario del borgo antico che negli anni si era fatto spazio tra le fila del clan Parisi. Busco pare essere scampato a diversi agguati ed è stato quindi soggetto odiato e desiderato dai vertici del clan Parisi perché ritenuto il responsabile morale di una guerra fratricida tra due organizzazioni contigue e storicamente alleate».

«Un’organizzazione – sintetizzano gli inquirenti – che se da un lato accusava il colpo per la perdita di uno dei suoi membri apicali, Milella, dall’altro rilanciava la leadership di Giovanni Palermiti». È proprio il figlio del boss a lanciare la gran parte dei messaggi criptati ai sodali per impartire ordini su vendette e spedizioni punitive. «Devi dargli filo da torcere – dice ai , riferendosi ad una parente di Busco – fate casino, accendete negozi, macchine, fateli spaventare, date un segnale. Si devono stancare». Poi suggerisce una gambizzazione: «Senti a me, un paio di colpi alle gambe senza che sa niente nessuno al marito della Busco. Ogni tanto giù a casa fate sentire un po’ di rumori pure con una 38, senza bossoli pure una a salve spaventateli, fateli vivere nel terrore, al marito una picchiata anche se non lo sparate».

Il 4 febbraio 2020, il clan subisce poi un duro colpo per via della scelta, per certi versi inaspettata, di uno dei suoi più illustri leader, Milella, di collaborare con la giustizia.

«Una decisione – si legge ancora negli atti – che ha inevitabilmente stravolto la vita delle persone a lui vicine». In quel periodo si sono registrati diversi danneggiamenti alle auto dei familiari del «pentito» e anche la creazione di falsi profili Facebook per schernire i protagonisti di quel pentimento, «senz’altro temuto da questa organizzazione criminale (e non solo) in ragione della elevata caratura criminale rivestita da Milella, rivelatosi profondo conoscitore di tutte le dinamiche della congrega criminale di appartenenza e per questo in grado di delineare in maniera chiara e compendiosa la cronistoria afferente gli sviluppi e le evoluzioni che la criminalità del quartiere Japigia aveva conosciuto nel corso del tempo».

E così pianificano il pestaggio del padre del «pentito». «L’ho fatto, le ha prese – riferisce un sodale al boss dopo l’aggressione – così abbassa la cresta sto cesso, mo facesse la video chiamata al figlio e si facesse vedere abbottato, così sentono un po’ di dolore pure loro. Mo tutta Bari sa che noi ce la prendiamo pure con la famiglia, così ci pensano prima di pentirsi».

La conversazione si chiude con una sorta di ammonimento: «Come aprono sti telefoni a 41 ci devono mettere». Il riferimento numerico farebbe pensare al 41 bis, il regime del carcere duro. Un timore, quello dei mafiosi di Japigia, che per qualcuno è già realtà.




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www.lagazzettadelmezzogiorno.it è stato pubblicato il 2024-09-30 08:21:31 da


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